La strage di Kiev: “Io, sorpreso dal boato. Poi quei corpi a terra”
Gianluca Panella
Là al ponte di Irpin tutto è cambiato. I colpi di mortaio atterrano sulla strada.
Sono assordanti, gli uomini che presidiano il crocevia da cui nasce il rettilineo di tre chilometri che attraversa il bosco fino al ponte crollato sul fiume, ci intimano di non entrare. Ci dicono che un colpo di mortaio ha ucciso dei civili. È atterrato sulla strada, ma questa volta dalla parte del ponte dove ieri avevamo documentato l’esodo di donne, bambini e anziani, attraverso lunghe file di autobus. Adesso i mortai atterrano lì.
La situazione oggi è grave, i russi hanno preso Bucha, la popolazione non può lasciare la città e l’artiglieria russa si abbatte sulle strade di Irpin. La battaglia è diventata molto più violenta nelle ultime ventiquattro ore.
Un’intera famiglia: il papà, la mamma, una figlia adolescente con suo fratello che pareva coetaneo. La mamma con i figli muoiono sul colpo, sembra mancare un corpo, forse il padre è stato trasportato in fretta perché mostrava ancora segni di vita.
Il fatto che fossero civili ci obbliga ad andare immediatamente. Noi serviamo a questo: a raccontare gli effetti della guerra su chi la guerra la subisce.
La corsa in auto termina presto. Il driver non va avanti più di così, non ci porterà al parcheggio di fronte al grande magazzino come ha fatto ieri. Parcheggia dentro al bosco che costeggia la strada infilandosi in una strada fangosa e ci ritroviamo circondati da truppe ucraine nascoste che sorvegliano l’area.
Scendiamo dall’auto in fretta, sulla destra un soldato mimetizzato tra i cespugli, più avanti un altro che sta azionando un piccolo drone.
Attraversiamo la strada e ci dirigiamo verso quel ponte devastato. Corriamo bassi mentre i colpi di mortaio si alternano a gruppi di tre. Quaranta secondi tra l’uno e l’altro.
Via dall’asfalto, pensiamo. Non c’è niente di più pericoloso. Un mortaio, colpendo una superficie dura, crea danni maggiori; le schegge arrivano più lontano anche del triplo della distanza alla quale arriverebbero se atterrasse su un terreno morbido. Ci hanno detto che i corpi sono poco prima del ponte, proprio là dove c’è il monumento sovietico.
Corriamo per circa 700 metri, l’altroieri percorrevamo quella distanza seduti comodamente in auto. I muretti di mattoni e le staccionate di lamiera verniciata che strusciano sulla nostra giacca, portano i segni delle schegge, ma non è il momento di pensarci. Dobbiamo arrivare al monumento, fare le foto ai corpi di queste povere persone che cercavano di scappare dall’inferno dei mortai e tornare.
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