Razionale o psicopatico? La metamorfosi di Putin

di Sandro Modeo

La guerra scatenata contro l’Ucraina è mossa coerente di un leader razionale o l’azzardo di uno zar impazzito, offuscato dalla paranoia o dai farmaci necessari alla cura delle sue patologie? Un’analisi nella mente del presidente della Russia — perché capirne la prospettiva è indispensabile per intuirne le mosse (e la durata del conflitto)

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La domanda, purtroppo, è tutt’altro che oziosa, al punto da avere attivato da qualche giorno un’animata discussione internazionale ed essere diventata nelle ultime ore, non a caso, la «priorità» americana (dei servizi e del Pentagono): cercare di capire, almeno con approssimazione accettabile, se il presidente della Federazione Russa con cui dobbiamo «interloquire» per il conflitto da lui scatenato si ponga come «Putin the Rational» o «Vlad the Mad» (col secondo epiteto che allude al conte di Valacchia, l’«impalatore» prototipo di Dracula); o, forse, un ibrido tra le due identità, in alternanza o persino in sovrapposizione. Soprattutto da quell’interrogativo, infatti (anche se per fortuna non solo da quello, dato che incideranno fattori oggettivi, «esterni» alla personalità putiniana), dipendono le variabili dell’evoluzione bellica e politica: compresa, inutile girarci intorno, quella che si allunga come una nuova ombra sullo sfumare dell’ombra pandemica, quasi a staffetta: quella di un conflitto prolungato ed esteso o addirittura di un conflitto nucleare.

Il quadro è diviso, quasi polarizzato, con due schieramenti affollati di storici e studiosi di geopolitica, psicologi-psichiatri e neurologi: da una parte abbiamo i sostenitori della continuità, della coerenza e dell’ostinazione progettuale, sia nella visione storico-geopolitica che nella psicologia del presidente (e del suo cerchio magico); dall’altro, quelli che vedono invece un cambiamento più o meno marcato, comunque una metamorfosi, da ricondursi sia ai mutamenti della situazione ucraina sia, soprattutto, a un’alterazione neuropsicologica (per certi aspetti speculare a quella somatico-fisiognomica), dovuta alle varie patologie di cui Putin soffre o soffrirebbe, e alle relative terapie per curarle. Il tracciato è complesso, a tratti persino contradittorio, con buone ragioni da tutte e due le prospettive.

1. La «continuità» / 1: il sogno di una rinascita della Russia
2. La «continuità» /2: i rapporti con l’Ucraina e i momenti-chiave
3. Continuità e discontinuità nella nella psicologia di Putin
4. La metamorfosi e le patologie
5. Il «malato» e il «malvagio»
6. Che fare? Le domande all’Occidente

1. Putin e un sogno di vendetta che arriva da lontano

Nel momento in cui inquadra il crollo dell’Urss come «la più grande tragedia del ventesimo secolo» e abbandona presto l’iniziale apertura al dialogo e all’integrazione con Ue nascente e Nato, Putin mostra già in controluce il disegno soggiacente alle sue politiche future, la madre di tutte le revanches: un disegno descritto dall’esterno come neoimperialista, neosovietico o a mix tra i due, ma in ogni caso teso a un impulso di «riconquista» e «riparazione», di risalita a una grandeur originaria.

Al riguardo, tutti i suoi referenti culturali sono emblemi, in vari sensi, della tradizione e dell’«anima» russa: su tutti, Lev Gumilëv e Ivan Il’in.

Il primo, figlio d’arte (il padre — fatto fucilare da Stalin — era un poeta amatissimo da Raissa Gorbaciova; la madre nientemeno che Anna Achmatova) è un etnologo-geografo tra i massimi teorizzatori del ritorno a una Russia eurasiatica, secondo l’idea di certi esuli in età sovietica; il secondo, un «pensatore aristocratico» di iniziali simpatie naziste, che piega la filosofia idealistica tedesca in chiave slavofila (lui stesso si proclama discendente da Rjurik, il fondatore della Rus’ di Kiev) per rilanciare una Russia spiritualista e anticomunista, insieme antioccidentale e antisovietica. A concentrato esponenziale, non si può non citare il «Rasputin» Aleksandr Dugin, equivalente putiniano dello Steve Bannon trumpiano: perché è vero che Putin lo utilizza soprattutto in modo strumentale per aumentare il consenso, ma gli fa gioco la teoria delirante del «sogno eurasiatico», che vede nella Russia la nuova incarnazione dell’«Eterna Roma» espansa sia a est (fino all’Oceano Indiano) che a ovest (con l’Ue ridotta a «protettorato») e nell’America la nuova Cartagine (o la «chimerica», «impura» Nuova Babilonia). Anche se — con pronta e non casuale virata — Dugin vede nell’America trumpiana un interlocutore sintonico. Condendo il tutto con un non meno calcolato amplesso alla Chiesa ortodossa (vedi la sua frequentazione dell’archimandrita Tychon, stesso nome del «confessore» di Stavrogin, il protagonista dei Demoni di Dostoevskij), Putin conduce così lungo il «ventennio» le sue guerre: in Cecenia tra fine anni ’90 e nuovo millennio (con la devastazione di Groznji), in Georgia (2008), in Crimea e già in Ucraina (2014) in Siria (2015), a tacere della presa silente del Kazakhstan, che viene puntualmente ricordata quasi solo da Garry Kasparov, uno dei pochi ad aver capito tutto e presto.

2. Perché Putin ha puntato l’Ucraina? La Grande e la Piccola Russia

Una simile continuità è spesso legata al controllo degli snodi geo-strategici (Mare d’Azov e Mar Nero) e soprattutto delle risorse e dei traffici delle aree volta a volta (ri)occupate, quindi del relativo business statal-mafioso, come riassume proprio il rapporto tra Russia e Ucraina. Anche in questo caso, Putin utilizza a cornice — ancora in queste ore — una rilettura deformante di fatti e processi storici, riassunta addirittura in un saggio di suo pugno (Sull’unità storica di russi e ucraini, 12 luglio 2021) in cui l’indissolubilità originaria dei due popoli viene fatta risalire alla citata Rus’ di Kiev , e quindi alla comune origine da etnie scandinave migrate nelle aree della futura Madre Russia.

Poco importa che in realtà l’Ucraina (alla lettera: terra «al confine») abbia poi cercato lungo i secoli in molte occasioni di arrivare a un’autonomia che rifletta una propria identità nazionale; e — peggio ancora — che nel nuovo millennio abbia cercato l’integrazione geopolitica nell’Ue.

Qui siamo allo snodo-chiave, e al perverso intreccio Stato-mafia, che si salda al coté ideologico — o se vogliamo idealistico — come i muscoli alla struttura ossea di un organismo. Intreccio già in parte descritto da Roberto Saviano (qui), sul quale esiste un’oceanica bibliografia.

In estrema sintesi, lo schema rodato è per lungo tempo il seguente: il gigante Gazprom vende enormi cubature di gas naturale alla gemella ucraina Rue (RosUkrEnergo) «a prezzi stracciati», consentendo agli intermediari (come il controllore de facto di Rue, il boss «Don Semyon» Mohylevič, o oligarchi «buoni» come Dmytro Firtaš e il re dell’alluminio Oleg Deripaska) di trasportarlo (via Turkmenistan) e rivenderlo (anche ai Paesi europei) a prezzi astronomici: in cambio delle «creste», Putin (che ne beneficia in prima persona) chiede finanziamenti ai Partiti filorussi come il partito delle Regioni e ai relativi candidati-fantoccio (un nome per tutti: Viktor Janukovyč), che a loro volta si arricchiscono.

La summa materiale e simbolica di tutto questo è la cosiddetta Mežyhir’ja dello stesso Janukovyč, la «Versailles di Ucraina» in cui il presidente travasa una minima parte dei 12 miliardi di dollari acquisiti durante la presidenza: un’immane magione in cui risaltano uno zoo privato con canguri e struzzi, un galeone ancorato in un lago artificiale, 70 automobili da collezione, eliporti, e molto altro. Venatura non trascurabile: questo assetto di potere e business (in cui i confini tra Stato e mafia sono «fluidi» e «ibridi» come quelli tra guerra e pace nella teoria militare dell’attuale capo delle Forze Armate Valerij Gerasimov) acuisce presto il suo carattere transnazionale con inserzioni yankee: vedi la figura di Paul Manafort, decisivo (e strapagato) spin doctor di Janukovyč prima di diventarlo per Trump, e quindi ponte ideale verso la connection o collusion Trump-Putin.

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La villa di Janukovyč (Afp/Getty Images)

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