Razionale o psicopatico? La metamorfosi di Putin

Il punto è che nella visione di Putin quell’assetto dovrebbe coniugarsi a un permanente «vassallaggio» del Paese, ottenuto invece solo a singhiozzo, cioè sotto le presidenze compiacenti di Leonid Kučma (1994-2005) e dello stesso Janukovyč (2010-14). Risultano infatti problematici, dal punto di vista russo, sia il mandato di Viktor Juščenko (2005-2010), coincidente con la «rivoluzione arancione», cominciata proprio presidiando le piazze per il riconteggio delle elezioni del novembre 2004 e la correzione dei brogli (che in un primo momento fanno vincere Janukovyč); sia, in modo e grado diversi, quello di Petro Porošenko (2014-19).

Quest’ultima presidenza è decisiva — a posteriori — nello spiegare la transizione verso la guerra in corso: leader nel settore del cacao come riassume il nickname di «Re del cioccolato» (patrimonio, secondo Forbes, di 1,6 miliardi di dollari), Porošenko è figura ambivalente se non ambigua, che attua un pragmatico equilibrismo: è tra i fondatori del Partito delle Regioni, ma la sua politica estera vira presto (in coerenza con l’appoggio alle proteste 2013 di piazza Maidan) verso l’integrazione nell’Ue; cerca di tenere buoni rapporti con Putin, ma non è prono al separatismo filorusso.

L’anno in cui si insedia, il 2014, è quello della presa della Crimea e dei primi scontri militari nel Donbass (Oblast’ di Donetsk e Luhansk): ma quasi nessuno ricorda come Putin, a settembre, oltre ad avvisare Porošenko sull’inaffidabilità dell’Ue, si esprima in modi più brutali: «Se volessi, le truppe russe potrebbero essere in due giorni non solo a Kiev, ma anche a Riga, Vilnius, Tallinn, a Varsavia o Bucarest». Parla a nuora perché suocera intenda, dato che quelle parole verranno riferite da Porošenko a José Barroso, agli sgoccioli della Presidenza Ue; del resto, in una telefonata allo stesso Barroso, Putin avrebbe detto di poter «conquistare Kiev in due settimane».

Da quel momento, il rapporto Russia-Ucraina prosegue a onde, tra tensioni e distensioni: fino a quando due sequenze peggiorano il quadro.

La prima è quelle delle elezioni 2019: fuori causa un’antica nemica della Russia, la «signora dalla bionda treccia» Julija Tymošenko (già protagonista della Rivoluzione arancione e del governo Juščenko), Putin si accontenterebbe della conferma del pur riottoso Poroshenko come minore dei mali; invece, a sorpresa, vince l’ex comico Volodymyr Zelensky. La tensione col nuovo presidente tocca il diapason quando viene colpito Viktor Medvedchuk, politico-imprenditore amico di una vita di Putin, che è stato ospite nella sua dacia e ha addirittura tenuto a battesimo la figlia dell’oligarca, Daryja.

Uomo di fiducia del Cremlino a Kiev fin dai tempi della Rivoluzione arancione, Medvedchuk viene accusato dal governo di Zelensky di «alto tradimento» per il sostegno ai separatisti e lo sfruttamento illegale di risorse in Crimea: il 13 maggio 2021 è agli arresti domiciliari, dopo il sequestro dei beni di famiglia (compreso un oleodotto) e l’oscuramento delle tre TV (112, NewsOne e ZIK) utilizzate per la campagna filorussa.

Pochi giorni dopo — ufficialmente per un’«esercitazione su larga scala» — 3000 parà russi planano su Kiev. È l’antefatto dei parà planati in questi giorni per la presa di Kharkiv.

La seconda sequenza riguarda altre elezioni, quelle americane del 2020. Con l’exit di Trump (insanguinato dall’eversione di Capitol Hill, giustificata dal Cremlino) e la fine dell’isolazionismo, gli Usa tornano a essere per Putin — secondo la formula di Dugin — la «Nuova Babilonia». Le parole di «The Donald» sull’invasione ucraina sono tutt’altro che casuali: sia l’elogio di Putin, con iperbole già rivolta a sé stesso («un genio»), a far risaltare a contrasto la «stupidità» di Biden; sia, soprattutto, la rivendicazione dell’antica connection: «Con me, tutto questo non sarebbe successo». Forse, davvero non sarebbe successo, con un addomesticamento comune dell’Ucraina simile a quello dei tempi di Manafort; o forse, sarebbe successo comunque, in una reciproca legittimazione di azioni paralegali (lo stesso Trump ha proclamato l’inutilità di truppe Usa di peacekeeping all’estero, da destinarsi invece al confine messicano).

Con quelle due sequenze, in ogni caso, Putin non vede alternative: dopo «otto anni di negoziati a un punto morto», la «piccola Russia» — nozione ambigua, in realtà non coincidente con l’Ucraina — deve essere ricondotta alla Grande, ad ogni costo.

3. Continuità e discontinuità nella psicologia di Putin

La continuità storico-geopolitica e geostrategica appena percorsa è riflessa — secondo molti studiosi e osservatori — in quella psicologico-caratteriale di Putin, di fatto la stessa dalla sua presa del potere, ratificata tra marzo e maggio 2000 (ma avvenuta prima). Di più: per qualcuno, l’aggressività-anaffettività sarebbe costitutiva: la si potrebbe trovare già nel Putin ragazzino, che «gioca» nei cortili della kommunalka del centro di Leningrado in cui abita, un quinto e ultimo piano senza ascensore e a vani condivisi, con una coppia di anziani ebrei che — dirà più tardi Putin — lui non distingue affettivamente dai genitori. Come testimonia l’amico Viktor Borisenko, in quei cortili affollati di «brutti ceffi» con barba non rasata, sigarette e vino scadente, il giovane Volodya — anche se più giovane e magro di corporatura — «tiene testa a tutti»: «Se qualcuno lo insultava in qualsiasi modo, subito lui gli saltava addosso, lo graffiava, gli strappava i capelli a ciocche, lo mordeva».

Gli stessi tratti reattivo-rabbiosi sono poi testimoniati a scuola, nell’esperienza di judoka, nel KGB a Dresda; e sembrano poi ritrovarsi in tante sequenze della maturità, anche se — una volta al comando — frenate o almeno rivestite da un «controllo» algido e da una spietatezza atona. Lo si vede non solo nella conduzione delle guerre citate sopra, ma anche nella «gestione del dissenso» ovvero nella commissione dell’assassinio degli oppositori pericolosi (politici come Galina Starovojtova e Boris Nemtsov; giornalisti come Anna Politkovskaja e Paul Klebnikov) o del loro avvelenamento (dal polonio dell’agente FSB Litvinenko alla sostanza neurotossica dell’attivista Navalny); operazioni che arrivano a colpire anche gli ucraini, come il giornalista Georgij Gongadze (eliminato proprio per i suoi contributi sugli intrecci Stato-mafia) o come lo stesso futuro presidente Juscenko, intossicato con la diossina, tanto da restarne segnato in volto a vita.

In quest’ottica — che per certi versi sottende e quasi suggerisce spiegazioni psico-sociologiche se non psicanalitiche — molti valutano l’orrore ucraino in corso come un cambiamento «di grado» («di scala») ma non di sostanza: l’esito contestuale di quelle attitudini costitutive. Così la vede a esempio Semyon Gluzman, noto psichiatra ucraino oggi 75enne, spedito a inizio anni Settanta in una colonia penale siberiana (a Perm, 50 sottozero), per essersi opposto all’impiego della sua disciplina per soffocare i dissidenti. In una lunga intervista a John Sweeney per New Lines, Gluzman utilizza il rasoio di Occam: «No, Putin non è pazzo, è crudele», esattamente come i suoi antefatti canonici, da Hitler a Stalin, «evil doers», «gente sadica, ma non malata». Il che comporta una forte implicazione etica prima che politica: «se noi classifichiamo questi soggetti come malati, leviamo loro ogni responsabilità per le loro azioni». Tra tante osservazioni acute e altre più discutibili, Gluzman (che al momento dell’intervista spera ancora in una soluzione politica e in una rinuncia all’invasione) delinea molte questioni aperte: la distanza, se non l’irrelatezza, tra la «logica» occidentale e quella di Putin, come testimoniato dall’impotenza degli argomenti usati da Angela Merkel («Putin avrebbe potuto capirli, ma non li lasciava entrare nella sua mente»); la soggezione o meglio la paura dei boiardi e del cerchio magico e quella di Putin stesso, che nei tavoli immani e nel distanziamento esorcizzerebbe la prossimità della propria morte; e l’autoassoluzione implicita nei crimini che sta commettendo, totalmente delegati al nemico occidentale e alle sue «provocazioni».

A cerniera conclusiva delle due continuità (storico-geopolitica e psicologico-caratteriale) potremmo ricorrere alla descrizione del narratore Vladimir Sorokin, citata nella monumentale biografia putiniana di Steven Lee Myers. Scrivendo, non a caso, nell’anno-break 2014, cioè l’anno delle Olimpiadi-propaganda a Sochi, della Crimea e dell’innesco della crisi ucraina verso la guerra a «bassa intensità» (quella ha portato, ricordiamolo, più di 13.000 morti in otto anni), Sorokin vede i tratti decisivi di Putin nel continuo slittamento della dimensione personale in quella politica, con la nazione «ostaggio delle fisime psicosomatiche del suo leader». «Tutte le sue paure, le passioni, le debolezze, i complessi diventano politica dello Stato. Se è paranoico, l’intero Paese deve temere nemici e spie; se è insonne, tutti i ministri devono lavorare di notte; se è astemio, tutti devono smettere di bere; se beve, devono imitarlo; se odia l’America, contro cui il suo amato KGB ha combattuto, l’intera popolazione deve odiarla». («O al contrario amarla se lui la ama», avrebbe aggiunto Sorokin se avesse scritto dopo l’elezione di Trump).

È insieme una sintesi del Putin-pensiero e (a posteriori) una prognosi degli otto anni a venire, per certi aspetti definitiva.

Eppure, non tutti vedono quelle continuità, o non solo quelle.
In tanti, in questi anni e mesi, percepiscono Putin «cambiato»: nella somatica, va da sé, e non solo per l’età (testa ingrossata e faccia gonfia); nel «temperamento», che molti, tra cui Condoleeza Rice, definiscono «erratic»; nel lessico, spesso fuori controllo, viscerale, in tv come in privato; e a somma di tutto, nel cambio di passo di aggressività-anaffettività.

Significative le testimonianze dei politici; il presidente finlandese Sauli Niinisto, che lo conosce da molti anni, ha colto in una recente telefonata sulla sovranità finlandese toni «inusualmente minacciosi»; e lo stesso Macron — che l’ha incontrato e lo sente pressoché quotidianamente — ha detto di trovarlo più «rigido e paranoico», con «momenti di assenza».

Mentre diversi osservatori di politica e strategia militare vedono il Putin scacchista o freddo pokerista (molto bravo anche a bleffare) sostituito da un compulsivo giocatore d’azzardo alla roulette; e si spingono oltre un’istituzione della CIA come Robert Gates, che lo vede «fuori dai binari», o un decano del giornalismo francese come Bernard Guetta, uno dei tanti a descriverlo «scollegato dalla realtà». Forse lo sguardo più equilibrato — e più sottile — è quello dello psichiatra Kenneth Dekleva, a lungo all’ambasciata Usa a Mosca e specializzato nelle analisi psico-caratteriale dei leader. A domanda di Erin Burnett della Cnn su un Putin «cambiato» Dekleva risponde «sì e no», distinguendo tra la continuità dell’azione bellica (ancora una volta: dalla distruzione di Groznij a oggi) e un Putin «diverso» non perché «erratic», ma perché dominato dalla «frustrazione» e dalla «frenesia». «La cosa più triste, o più tragica» dice Dekleva, «è come Putin sia passato dall’essere un leader rispettato o temuto dall’Occidente e dal mondo a una sorta di Slobodan Milosevic». Resta però, inevasa, la questione dei possibili legami tra quei cambiamenti e le malattie del presidente.

4. La metamorfosi di Putin e le sue malattie

Anche un osservatore superficiale non può non restare colpito dalla metamorfosi somatico-fisiognomica subita negli anni dal volto di Putin: dal confronto fra una foto giovanile (in cui appare come un furetto febbrile in cerca di compostezza) o della maturità (come quella sulla copertina della biografia di Masha Gessen, in cui è scolpito in una glacialità asettica, quasi astratta) e certe foto recenti come quella su UnHerd, in cui lo sguardo minaccioso e assente aderisce ai tratti, a partire dalle gote iper-vascolarizzate dal botox.

Questo Putin «psicopatico» sembra attrarre naturalmente la metafora e la parabola del Joker, grazie a cui, chi lo volesse, potrebbe facilmente «unire i puntini»: saldare i vari segmenti di una lunga sindrome abbandonica (dal bambino dall’infanzia difficile allo zar barbarico cacciato dal mondo perbene del G8) e spiegare la sua aggressività sanguinaria come il desiderio di incendiare Gotham City. Forse c’è qualcosa di vero in questa caricatura; ma è un’altra semplificazione.

Seguendo sempre Myers, il volto e il corpo di Putin cominciano a mutare nel 2011, quando — anche su sollecitazione della nuova partner ufficiosa, la ginnasta Alina Kabaeva — riprende l’attività sportiva (lui ex judoka, sciatore e nuotatore) e si sottopone ai primi interventi di chirurgia cosmetica per un maquillage radicale: pelle più tesa, via zampe di gallina e borse intorno agli occhi, gote più alte e piene. Non tutti, in patria, gradiscono; ma un noto chirurgo estetico, Aleksandr Pukhov, prende le sue difese: «Volete davvero vedere il presidente vecchio e flaccido?».

E il nuovo look prepara i grotteschi festeggiamenti del 60° compleanno, 7 ottobre 2012, in cui, tra mille iniziative, si fa combattere il «conducator» con animali selvaggi (spesso drogati).

Ma sotto lo smalto della carrozzeria il motore arranca: il mese prima, a Vladivostok, Putin si era stirato giocando a hockey su ghiaccio; e nel periodo a seguire cominciano le speculazioni sulla sua salute, sempre più insistenti nella lunga eclissi del marzo 2015, tra voci di decesso (in stile Urss), di nuovo botulino e di interventi alla schiena. Speculazioni proseguite in questi anni e arrivate a diapason proprio in questi giorni, soprattutto su tre tipi di patologie.

La prima riguarda proprio «la schiena», ovvero possibili problemi alla colonna vertebrale per pregressi traumi sportivi, come accennato un volta dal «vassallo» bielorusso Lukashenko, o addirittura una neoplasia al midollo spinale, la cui sintomatologia sarebbe compatibile con alcune difficoltà deambulatorie e certe irrequietezze posturali di Putin. Lui stesso una volta ha ricordato i «fortissimi dolori alla schiena» patiti dal padre (scomparso il 2 agosto ’99 per cause non chiarite), indicando una possibile predisposizione ereditaria.

A livello di terapia, quel tipo di tumore vede il trattamento elettivo nei corticosteroidi (oltre a chirurgia, radio e più raramente chemio); farmaci, com’è noto, che possono indurre, specie a quantità elevata e periodi prolungati, alterazioni dell’umore a vasto spettro, secondo reazioni soggettive, dal down depressivo all’esaltazione maniacale. Memorabile, al riguardo, un film di Ray (Bigger Than Life), il cui protagonista, un grande James Mason, sviluppa una megalomania «napoleonica»; ma più prosaicamente, molti di noi ne hanno avuta esperienza diretta o tra parenti e amici. Con due corollari rilevanti: la possibile incidenza, a livello di effetti collaterali, di analgesici maggiori come gli oppioidi, che possono indurre a loro volta (oltre a dipendenza) idee paranoiche, apatia, depressione, rallentamento cognitivo; e il fatto che Putin possa aver assunto — soprattutto nel citato periodo di velleità salutista — anche steroidi anabolizzanti, non meno insidiosi nel produrre alterazioni del carattere verso la rabbia, l’aggressività e il disordine psicotico.

La seconda speculazione riguarda invece il morbo di Parkinson, che spiegherebbe a sua volta certe alterazioni cinetiche, la «rigidità» di cui parlano Macron e altri, il rallentamento della risposta cognitiva e la ridotta ampiezza di oscillazione della mano destra rispetto alla sinistra, rivelata da certe riprese tv. Anche qui però, un ulteriore problema sarebbe rappresentato dalle terapie: i farmaci di elezione, dopaminergici come la levodopa, producono effetti collaterali tra loro contraddittori, dalla sonnolenza all’ansia-agitazione alle allucinazioni.

Qui il riferimento immediato è Risvegli (il libro di Oliver Sacks, da cui il film con Robin Williams e De Niro), ma l’elemento chiave sono studi recenti che mostrano come quei farmaci trasformino tanti anziani parkinsoniani in giocatori compulsivi (di Bingo, Gratta & Vinci, roulette…) diminuendo la soglia di percezione del rischio.

L’inciso obbligato, invece, qui riguarda il precedente di Hitler, col parkinsonismo come uno dei pochi aspetti in cui i due autocrati siano accostabili in senso non generico e stereotipato. Un contributo recente di un gruppo di neurologi di Pittsburgh, in particolare, dimostrerebbe come la progressione della patologia e i relativi sintomi (tremori, schiena ricurva, sguardo assente, e così via) abbia compromesso piuttosto presto le capacità cognitive di Hitler e i suoi processi decisionali, determinando diversi errori strategico-militari, dal prematuro e frettoloso attacco della Russia nel ’41 all’ ostinazione nel prolungare l’assedio di Stalingrado l’anno dopo. Sono conclusioni altamente controverse: e con la differenza, comunque, che Hitler avrebbe subìto solo le alterazioni della malattia, non quelle delle terapie.

La terza ipotesi sulle patologie di Putin riguarda il Covid-19: nel dettaglio, la possibilità che una forma di Long-Covid possa aver prodotto una nebbia cognitiva.

Troppi elementi, però, non sembrano tornare: può darsi che Putin abbia contratto il virus a settembre 2020, quando tutto il cerchio magico viene isolato; e può darsi che lo Sputnik V (seconda dose in aprile 2021) non l’abbia protetto a sufficienza.

Ma come sempre, l’opacità è sovrana: quando Macron rifiuta il tampone nella visita al Cremlino, Putin esibisce il primo dei famosi tavoli-ponte per non (ri) contagiarsi: ma perché allora, com’è stato notato, in quel periodo si apparta senza mascherina con Lukashenko?

L’opacità stessa — e l’impossibilità delle intelligence di appurare la verità — non permette di stabilire con certezza nessi causali tra le patologie di Putin e le alterazioni psico-caratteriali. Però, nonostante alcune contro-tesi da «avvocato del Diavolo» dell’intelligence Usa (il fatto che Putin «reciti» la propria instabilità come strategia), i suoi cambiamenti sono evidenti.

5. Il malato e il malvagio

«Sono un malato… sono un malvagio»: è il ruminio dell’io narrante nel celebre incipit delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Nel romanzo, patologia e malvagità sono i tratti sovrapposti di una discesa «pre-freudiana» nelle cause sottostanti al disagio psichico; qui, semplicemente, sintetizzano la domanda iniziale su un Putin in continuità o discontinuità coi suoi tratti («solo» malvagio o «anche» malato).

In effetti, in partenza ha ragione Gluzman: la crudeltà (o il sadismo, o se vogliamo il «male», rigorosamente con la minuscola, per togliergli ogni enfasi teologico-metafisica) non necessitano di un’addizione patologica; a meno di non considerare patologici quegli stessi tratti. O impostare il discorso in altro modo.

In un libro notevole di Simon Baron-Cohen, psicologo-psichiatra di Cambdrige (Zero Degrees of Empathy, in italiano proprio La scienza del male, Cortina), vengono analizzati «sei gradi» di empatia con cui — per tratti neuropsicologici come esito di genetica e cultura — ogni soggetto umano si relaziona al prossimo. Semplificando brutalmente, a un estremo della scala (lo «zero» del titolo) abbiamo i dittatori, i boia nazisti o stalinisti; all’altro, la «super-empatia» di San Francesco o del principe Myškin dell’Idiota; in mezzo, la medietas delle maggioranze. È una classificazione in cui il quantitativo è ipso facto qualitativo, ed è forse utile per ipotizzare una lettura del rapporto continuità-discontinuità nel percorso di Putin appena ricostruito.

Per un verso, come si è visto, l’invasione dell’Ucraina obbedisce a una coerenza «progettuale» di lungo corso e a obiettivi molto precisi, che Putin sta per raggiungere. E nessuno può dire, al momento, se l’hybris proseguirà oltre e altrove, come sostengono in tanti, a cominciare dalla Nobel bielorussa Svetlana Aleksievich; se gli obiettivi saranno perimetrati all’Ucraina (con probabili trattative «vere» dopo il controllo di Kiev e della congiungente Donbass-Transnistria via Odessa, Zelensky ucciso o destituito) o se si estenderanno ai Paesi Nato; in ultimo, se la minaccia nucleare, com’è probabile, sia solo l’apex della dottrina russa della «escalation to de-escalation» (sorta di nuova versione della «madman theory» nixoniana) o una prospettiva praticabile.

Ma, per un altro verso — o simultaneamente —, già ora ci sono un prima e un dopo questa invasione: un diaframma separa comunque le guerre precedenti (quasi tutte «interne»), il sicariaggio di oppositori e dissidenti, persino le due ecatombi dei primi anni di presidenza, esito di sue gestioni scellerate (il sottomarino Kursk nel 2000 e la strage alla scuola di Beslan nel 2004) dall’annientamento di una nazione di oltre 40 milioni di abitanti, con l’indifferenza (la non-empatia) verso decine di migliaia di vittime civili e militari, compresi tanti giovani russi; in ultimo, tra l’intenzione di riscrivere la storia come in una fiction di Philip Dick e l’attuazione di quella riscrittura.

Certo, in questo passaggio — una volta per tutte: di grado e di sostanza — può avere inciso, di nuovo, lo slittamento del «personale» nel «politico» descritto da Sorokin (comunque uno schema da personaggio dickiano: il mondo inghiottito dall’Io): per esempio, la furia per i provvedimenti contro il sodale Medvedchuk. Ma qui non è da escludere l’insinuarsi delle alterazioni ipotizzate sulla spietatezza-anaffettività costitutiva, che ne verrebbe acuita, nell’ottica di Putin con vantaggi (maggior intraprendenza) e svantaggi (minor lucidità di calcolo).

Non solo: se la guerra viene mossa da un 70 enne, non è da escludere — a cornice di tutto — il peso della percezione della propria fine biologica, sia in sé stessa, sia legata a una patologia che la stia accelerando.

La finestra temporale per riscrivere la Storia a proprio nome si sta chiudendo: questo coinciderebbe con la «fretta» registrata da Dekleva. Né è da escludere che il «Paese profondo» — periferie povere, volente e opache come quelle descritte nei romanzi di Roman Sencin — lo sostenga proprio per questo, in sintonia con l’«attimo» da cogliere. Qui il «personale» e il «politico» sembrano fondersi con una consistenza inquietante; anche se i morsi economico-sociale delle sanzioni (vedi il possibile default imminente) potrebbe presto minarla.

In questa prospettiva, tutta la gestione dell’invasione diventa più coerente.

Lo diventa l’enfasi della rappresentazione nei saloni «onirici» del Cremlino, con i citati tavoli-ponte come studiati «schiacciamenti prospettici» degli interlocutori interni e internazionali: vedi, su tutto, la sequenza dell’umiliazione del capo dell’intelligence Naryshkin, che rivelerà in foto successive il distanziamento estremo tra Putin (su una minuscola scrivania bianca) e il resto dell’assemblea. E lo diventa l’impiego della neolingua putiniana, in cui inganno e auto-inganno si saldano ferocemente. Esemplare, al riguardo, il monologo, con tanto di contrazioni nasali «taurine», sulla «denazificazione» dell’Ucraina, in cui Putin non solo enfatizza le presenze neonaziste in quel Paese (in decalage) e finge di ignorarne il possente coté ebraico, ma elide dalla scena il fatto di esser stato lui a utilizzare formazioni neonaziste in quelle aree, come quella di Aleksandr Barkashov in appoggio ai separatisti filorussi; a tacere della sua sintonia con autocrati a loro volta sintonici a formazioni neonaziste, Trump in testa.

6. Che fare? Le domande all’Occidente

Il Putin dei primi vent’anni di presidenza (di «regno») era, nei termini ricordati all’inizio, un «Putin the Rational» prevalente in alternanza a un «Vlad the Mad» «episodico»; o almeno così ha fatto comodo figurarselo all’Occidente, come ricorda sempre Kasparov.

Quello attuale sembra alternare due varianti di mister Hyde, lasciando i residui del dottor Jekyll solo alla ratio dei propri obiettivi.

Contrastarlo, o interloquire con lui, è quindi (quasi) impossibile.

Le domande cui rispondere o le questioni da risolvere nell’immediato sono quasi accademiche. La prima — indissolubilmente legata a quella su un Putin neuropsicologicamente alterato — è quella sull’entourage ristretto.

Secondo Tatyana Stanovaya, fondatrice degli analisti politici R. Politik, l’attuale élite governativa putiniana sarebbe spartita tra un gruppo di «tecnocrati» con poca o nessuna voce in ambito di sicurezza e politica estera e un ristretto gruppo di «consiglieri» dell’intelligence e dell’esercito (i cosiddetti siloviki) che dominerebbero l’agenda, alimentando il lato più aggressivo di P. e spingendo per le soluzioni più radicali.

Ne spiccano, su tutti, tre: il «falco tra i falchi» dell’intelligence, Nikolai Petrushev (collega-amico di P. nel KGB fin dagli anni ’70 e fautore primo dell’avvelenamento di Litvinenko), complottista-dietrologo che vede nell’Ucraina un «protettorato» occidentale e teorizza una congiura Usa per «distruggere la Russia» (questo almeno fino al 2015, prima della vittoria di Trump); il capo dell’FSB, Aleksandr Bortnikov, anche lui in rapporti con Putin dagli anni ’70 al KGB, responsabile di vari ambiti tra loro correlati (contro-terrorismo, cyber-sicurezza) e, non ufficialmente, della gestione» delle opposizioni e del dissenso; e l’ormai noto Ministro della difesa Sergei Shoigu , uno dei tre uomini da cui dipenderebbe un’eventuale attacco nucleare (gli altri due sono lo stesso Putin e il Capo delle Forze Armate Gerasimov).

È un quadro che implica diverse incognite: su tutte, quale sia il vero rapporto gerarchico tra Putin e i boiardi; su quanto, appunto, i siloviki alimentino il mister Hyde più strong.

La seconda questione è quasi basica. Con un establishment così aggressivo e coeso (anche se qualche osservatore si spinge a vedere nell’ escalation il segnale di una «lotta per la successione» a Putin già in corso), molto dipenderà dall’attività diplomatica con interlocutori terzi. Il punto è che l’attore più influente, la Cina, non ha esplicitamente condannato l’invasione ucraina in quanto la inquadra come utile «precedente» per proprie, eventuali iniziative analoghe, non solo a Taiwan (vedi Tibet e Xingjiang).

Forse però, la domanda più ingombrante (che in questi giorni cerchiamo di esorcizzare e rimuovere con ogni mezzo) è a un altro livello. È stato giustamente scritto come l’invasione russa rappresenti l’irruzione (il ritorno) di una dimensione antistorica ovvero arcaica, quasi primordiale. Si finge di non vedere, però, che questo è quasi solo il punto di vista «occidentale» o meglio europeo: mentre noi abbiamo trascorso un secolo senza pandemie (l’ultima è stata la Spagnola) e tre quarti di secolo senza guerre (con l’eccezione tragica dell’ex-Jugoslavia), in molte aree del resto del mondo pandemie e/o guerre hanno continuato a mietere vittime e a rallentare quei progressi tecnoscientifici, culturali e socioeconomici che diminuiscono la conflittualità della specie, come ha mostrato Steven Pinker in un libro già classico come The Better Angels of Our Nature (Il declino della violenza, Mondadori).

L’arcaico, il primordiale (come sinonimo di violenza e guerra) è stato addomesticato, non eliminato dalla natura umana; è sempre lì, in alcuni circuiti del cervello del Sapiens, non solo in quello di Putin.

Illudersi del contrario, può portare a risvegli-shock. Traduzione sgradevole: il conflitto in corso ha comportato e comporterà per noi (come blowback delle sanzioni) costi energetici, economici, commerciali; per gli ucraini — che stanno resistendo con una dignità esemplare — la perdita della vita o lo sradicamento. Nel caso, saremmo pronti a imitarli?

FONTI
Libri
Biografie di Putin: Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, traduzione di Lorenzo Matteoli, Bompiani, 2008; Steven Lee Myers, The New Tsar. The Rise and Reign of Vladimir Putin, Simon & Schuster, 2015, paperback 2016; sulla visione geopolitica e geostrategica di Putin: Angela Stent, Putin’s World: Russia Against the West and With the Rest, Twelve, 2019; sull’intreccio Stato-mafia in Russia e Ucraina: Luke Harding, Collusion, traduzione di Sara Crimi e Laura Tasso, Mondadori, 2017; Craig Unger, Casa di Trump, Casa di Putin, traduzione di Lorenzo Matteoli, La Nave di Teseo, 2018; sui rapporti storici tra Russia e Ucraina: Giorgo Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, 2021.

Articoli
L’intervista di John Sweeney allo psichiatra ucraino Seymon Gluzman, A Bad Day in Kyiv, è uscita su New Lines, 24 febbraio 2022; sulle patologie di Putin sono uscite decine di articoli: si segnalano almeno quello redazionale del Robert Lansing Institute, Putin’s worsening health set to be is determining factor in Russia’s policy over the next four years, 29 settembre 2021; e quello di Paul Taylor, Inside Vladimir Putin’s head, POLITICO, 27 febbraio 2022; sull’entourage di Putin e i siloviki: Andrew Roth, Putin’s security men: the elite group who ‘fuels his anxieties’, Guardian, 4 febbraio 2022.

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