Guerra Russia-Ucraina e chip: transizione ecologica a rischio

Tutto funziona col chip

«Disegnato in California, assemblato in Cina». Tutti almeno una volta abbiamo letto questa scritta dietro ad un prodotto Apple, ma probabilmente non ci siamo mai chiesti se manchi qualcosa. Se un iPhone è progettato negli Stati Uniti e assemblato nelle fabbriche di Shenzhen, a pochi chilometri di distanza da Hong Kong, il passaggio occulto è: chi produce i singoli pezzi con cui viene costruito, in particolare i fondamentali microchip? Lo stesso vale per tutti i prodotti tecnologici che possediamo: laptop, lavatrici, contatori della luce, caldaie, automobili, server, router, sistemi wireless per collegarsi ad internet, orologi, telecomunicazioni, satelliti, sistemi di controllo della temperatura, videocamere di sicurezza, aerei, elicotteri, automobili in condivisione, bike sharing, Kindle, microscopi, macchine a raggi x, per le ecografie e le analisi del sangue, manifattura 4.0 (il cuore dell’Europa industriale), stampanti, impianti fotovoltaici, sistemi in cloud dove ormai risiedono tutti i nostri certificati sanitari e amministrativi. Sommandoli tutti avremo una idea concreta di quanto tutti noi dipendiamo dai chip. Basta aprire il portafoglio e guardare le carte di credito e i bancomat: hanno un microchip accanto alla banda magnetica che nessuno utilizza più. Solo in Europa abbiamo 810 milioni di carte di pagamento.

Dove si producono

Il chip, che letteralmente significa « pezzetto», «frammento», è un circuito integrato che racchiude milioni di transistor. Generalmente il semiconduttore con cui è fatto è il silicio, da cui viene il nome della Silicon Valley, e ne esistono di semplici e complessi, con diverse funzioni, da una memoria digitale a un microprocessore.

La geografia dei chip, il cuore di qualunque tecnologia, segue la geopolitica: vengono prodotti sempre di più in Asia, sempre di meno in Europa e negli Stati UnitiLa capacità produttiva nei semiconduttori dell’Unione europea è scesa dal 24% mondiale del 2000, all’8% attuale. Secondo un rapporto appena pubblicato da Asml, leader olandese di questa industria, questa percentuale rischia di scendere al 4% se non verrà fatto nulla. Mentre il fatturato di questa industria passerà nei prossimi otto anni da un trilione a due trilioni di dollari: più dell’intero Prodotto interno lordo italiano per intendersi. Ma non è solo una questione di denaro, progresso e occupazione. L’Europa oltre a perdere la cosiddetta «sovranità tecnologica», diventerà totalmente dipendente dall’Asia (la Russia non è un grande produttore di microchip, ma ha un ruolo cruciale che vedremo dopo).

Europa: da produttore a cliente

Solo nel 1990 l’Europa produceva il 44% dei microchip con anche campioni italo-francesi quali StM che fornivano il leader mondiale dei cellulari Nokia. Sempre nel 1990 gli Stati Uniti producevano il 37% del mercato dei semiconduttori. Il problema, oggi, è che dipendiamo totalmente dal mondo digitale. Il numero degli apparecchi collegati alla Rete, secondo le proiezioni, passerà dagli attuali 40 miliardi a 350 miliardi nel 2030. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di 5G, automobili elettrici, Internet delle cose, città intelligenti, industria 4.0, smart working, metropolitane a guida autonoma, energie rinnovabili, efficienza energetica della Rete elettrica. Anche la scienza e la ricerca dipendono dai chip: pochi giorni fa il ministro dell’Università e della Ricerca, Cristina Messa, si è recata al Cineca di Bologna per il lancio del supercomputer Leonardo: con 270 petaflops (270 milioni di miliardi di operazioni al secondo) sarà uno dei più potenti al mondo. Ma dentro non c’è traccia di tecnologia europea. Non è un caso che, qualche mese prima, anche il presidente degli Stati Uniti Biden avesse chiesto più o meno la stessa cifra al congresso americano: 50 miliardi di dollari. Anche il nome è lo stesso: Chip Act. Navighiamo nelle stesse acque, come si è visto con i problemi di fornitura durante la crisi legata al Covid-19 (detto chip shortage). I maggiori produttori al mondo sono Cina, Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Con la Cina che, nel 2030, prenderà il posto che avevamo noi europei nel 2000, con un quarto del mercato mondiale.

La guerra in Ucraina e la carenza di chip

Secondo Aslm potremmo trovarci in una situazione di «chip shock», paragonabile all’oil shock del 1973, quando il prezzo del petrolio costrinse gli italiani ad andare in bicicletta. Ma oggi, senza i chip, nemmeno la bicicletta o il monopattino elettrico in condivisione si muoverebbero. In altre parole, la transizione ecologica stessa – che si basa su una transizione energetica e il passaggio a nuove industrie come quella dell’automobile elettrica – potrebbe essere frenata da variabili esterne: la carenza di chip. A peggiorare le prospettive c’è la tragedia Russia-Ucraina. Quando si parla di chip in realtà si semplifica brutalmente un mercato molto ampio e variegato. Esistono chip a bassa e ad alta tecnologia (questi ultimi concentrati in Corea del Sud e a Taiwan, su cui Pechino ha delle chiari mire che l’escalation della guerra tra Russia e Ucraina potrebbe risvegliare). Ma l’industria è così complessa da avere ramificazioni inaspettate. L’Ucraina è tra i principali esportatori di C4F6 e di neon, un gas che serve per l’incisione laser dei wafer di silicio con cui si costruiscono i chip. Il 90% del neon usato nell’industria americana viene proprio da Kiev. Un’altra materia prima indispensabile è il palladio, e il 45% è prodotto in Russia, mentre le terre rare sono quasi tutte in mano cinese. Nella guerra di sanzioni tra Occidente e Russia come si posizionerà la Cina? In questo momento la geopolitica del chip può sembrare un fatto secondario, eppure proprio l’accelerazione guerrafondaia di Putin dovrebbe alzare ancora di più le antenne. Oggi anche le armi hanno bisogno di chip.

La grande rincorsa

Per tutte le ragioni sopra elencate l’Europa e gli Stati Uniti vogliono tornare sul mercato con decine di miliardi pubblici per risvegliare l’industria. La tecnologia però non basta, ci vogliono anche le materie prime. Vuol dire cominciare a blindarsi con il Sudafrica, secondo produttore di palladio, e dare inizio all’estrazione e trasformazione delle terre rare presenti in Europa (progetto Eurare).

La storia recente ci ha dimostrato che la pianificazione sul lungo periodo porta vantaggi, mentre quella a breve è sempre perdenteNegli anni Novanta all’interno delle istituzioni europee si tenne un acceso dibattito sulla costruzione di un proprio sistema di geolocalizzazione, quello che oggi, con 24 satelliti, si chiama Galileo ed è più avanzato del sistema Gps americano. Tra le argomentazioni di allora c’era anche questa: perché spendere dei soldi pubblici quando possiamo usare il Gps americano o, all’occorrenza, il Glonass russo? Un errore che invece ha fatto la politica italiana non diversificando le fonti di approvvigionamento energetico, e rendendoci dipendenti dal gas russo. Si dice sovranità, ma si legge crescita economica ed occupazione. Forse anche libertà.dataroom@rcs.it

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