Perché l’Italia è l’anello debole
Poteri pubblici e aziende private per anni hanno alimentato l’interscambio con la Russia senza rendersi conto della vulnerabilità economica dell’Europa e dei rischi
Come ha fatto l’Europa a diventare così dipendente dalla Russia per l’energia e non soltanto? Come mai a coloro che, per conto di pubblici poteri e di imprese private, hanno alimentato per anni e anni l’interscambio con la Russia, non è mai venuto il sospetto di avere infilato la testa nella bocca del leone?
C’è un problema che riguarda l’intera Europa e ci sono le specificità nazionali. Con riguardo alle quali possiamo dire che il caso italiano fa storia a sé. Come in altri momenti del passato, l’Italia si rivela l’anello debole della catena occidentale.
Consideriamo dapprima il problema generale. Perché la dipendenza europea dalla Russia? Si possono citare varie cause. Come la geografia: avere buoni rapporti con un vicino così ingombrante era rassicurante per l’Europa occidentale. Cosa c’era di meglio dei rapporti economici per rinforzare l’amicizia fra vicini? Poi c’era la convenienza: gli affari erano davvero buoni. Per il prezzo di petrolio e gas. E perché la Russia è un grande e appetibile mercato per le merci occidentali.
Gli affari sono affari, si dice, e pecunia non olet, i soldi non hanno odore. Ma non tutti gli affari sono uguali.
Che le cose potessero prendere una brutta piega era chiaro a diversi osservatori da molto tempo. Per lo meno dall’attacco alla Georgia del 2008. E ancor più platealmente dal momento della conquista della Crimea (2014) e l’avvio della secessione nel Donbass. Per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale una grande potenza violava la regola tacita secondo cui la pace in Europa richiede che i cambiamenti di confine siano sempre decisi consensualmente. Perché nessuno si preoccupò allora di fare i conti con la vulnerabilità economica dell’Europa?
È troppo facile dire che era solo una questione di interessi. Naturalmente, gli interessi contano, eccome. Però, vale la regola generale secondo cui gli interessi sono potentemente condizionati dal clima politico-culturale prevalente. Quel clima spinge gli interessi in una direzione o nell’altra, incentiva o disincentiva certi investimenti, favorisce l’ingresso in certi mercati, rende più difficoltoso l’ingresso in altri.
Si consideri l’illusione di cui spesso sono vittime le società aperte quando trattano con le autocrazie. È un’idea antica, presente in Occidente fin da quando Montesquieu nel Settecento scrisse che il commercio ingentilisce i costumi, quella secondo cui l’interscambio economico, e l’interdipendenza che ne risulta, può favorire la pace. Un’idea corretta. Ma che diventa sbagliata se viene estremizzata, se ci porta a pensare che sia sufficiente un’elevata interdipendenza economica perché i problemi politici e geopolitici scompaiano. L’errore consiste nel credere che i rapporti che le società aperte e democratiche intrattengono con una grande potenza autocratica abbiano gli stessi effetti di quelli che tali società intrattengono fra loro.
Da quella concezione errata discendono gli sbagli commessi dall’Occidente. Finita la Guerra fredda e ancora nella prima fase dell’era Putin, si pensò che la Russia non sarebbe mai più stata un pericolo. Se anche non fosse diventata una democrazia di stampo occidentale, la sua apertura al mondo ne avrebbe comunque garantito una definitiva normalizzazione. Era l’epoca in cui la Russia veniva inserita a pieno titolo nelle istituzioni che alimentano quei processi di crescita dell’interdipendenza economica e finanziaria impropriamente chiamati «globalizzazione». Era l’epoca di Pratica di Mare (2002) e dell’accordo di collaborazione allora siglato fra la Nato e la Russia. La Russia era diventata un alleato dell’Occidente. E fu proprio per questo che l’allargamento della Nato ad Est non venne allora considerato né dagli occidentali né da Putin una minaccia alla sicurezza russa.
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