Trattare col nemico per battere i demoni
In questo mese terribile di aggressione russa si è andati molto avanti nel sovrapporre la maschera di Hitler alla faccia di Putin, non soltanto sui “murales” o sulle copertine dei settimanali. Si è deciso, anche nei discorsi di molti leader, che si intravede al Cremlino la reincarnazione dell’imbianchino viennese, che abbiamo a che fare con un totalitarismo e che l’aggressione criminale all’Ucraina non è una guerra di annessione o di intimidazione ma un tentativo di genocidio. Insomma in un Occidente che sempre vorrebbe vedere in lotta in modo manicheo le forze del Bene e del Male, forse per non interrogarsi sulle proprie debolezze, abbiamo già percorso, anche da questa parte dell’Atlantico, molto terreno per lasciarci alle spalle una logica politica e entrare nel regno del confronto con una natura definita diabolica. Abbiamo nostalgia di una “buona guerra” come fu appunto la seconda guerra mondiale o come è stata la guerra fredda per molti americani che oggi prendono le decisioni su quella contro Putin. Ma dopo aver demonizzato l’avversario, si coltiva la certezza di ciò che è il nemico, ovvero il contrario speculare di quanto siamo noi, e si è sicuri di poter indovinare che cosa vuole e il modo in cui intende ottenerlo. E così si commettono errori pericolosi.
Perchè entra in azione anche la sindrome di Monaco. Da quel settembre 1928 in cui l’inglese Chamberlain armato di bombetta e ombrello e il capitolardo francese Daladier arrivarono in Germania per trattare e stringere la mano al diavolo Hitler ogni negoziato con gli autocrati è diventato sinonimo di umiliante e soprattutto inutile capitolazione. Il marchio dell’infamia. Perché Hitler ne trasse soltanto la conferma che con quei vili personaggi disposti a sacrificare alleati e amici al proprio comodo si poteva continuare a praticare la tattica del bluff e della intimidazione. Ma questo non è un ultimo atto sempre scritto, entra in scena lo spessore degli uomini che interpretano il copione.
Oggi le opinioni pubbliche occidentali chiedono ai governi di garantire la sicurezza assoluta, cacciare i diavoli della scena internazionale e farlo utilizzando metodi morali che non li rendano simili a coloro che devono essere puniti. Tutte insieme sono richieste spesso incompatibili. Talora bisogna allearsi con un diavolo per eliminarne un altro, o affrontare sacrifici economici troppo elevati da risultare insopportabili, oppure i mezzi che si ritenevano sufficienti, l’isolamento, le sanzioni, si rivelano polvere innocua. sullo scenario della politica mondiale la possibilità di risolvere tutto con un colpo solo è molto rara.
Resta agli europei, di fronte a chiacchieroni e avventurieri, un’arma in cui sono maestri, la diplomazia. Anche se sembra abbiano esaurito ultimamente i loro talenti nei negoziati politici e burocratici interni e tra gli Stati della Unione. Attenzione: parlare con il diavolo di turno, al telefono o attorno a un tavolo, non è un obbligo morale anche se il risultato che ci si propone è fermare il massacro e ottenere un cessate il fuoco. È una strategia, una possibilità. Ma è un errore pensare che sia una soluzione magica, da impiegare quando tutto il resto è fallito. Nelle relazioni interazionali non bisogna davvero mai dire mai ma neppure dire sempre. Come la ipotesi della guerra la diplomazia deve esser giudicata dalle conseguenze che determina, il suo verbo è il condizionale, procede per continue ipotesi: se tratto il nemico in questo modo che cosa ottengo? Alternare bastone e carota a cosa porta? Fornire certi tipi di armi che effetti ha sul nemico e sugli alleati? Ma la diplomazia consente di correggere le valutazioni sbagliate, di ricominciare da capo. Crea condizioni, possibilità, può influenzare l’autocrate più che una minaccia, dargli lo spazio per non ripetere le brutalità che ha già commesso. A un certo punto del negoziato arriva la domanda per le democrazie: quando il compromesso diventa cedimento? Quando fermare la guerra è rinuncia vergognosa a interessi vitali? Ma bisogna arrivare a quel punto.
LA STAMPA
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