Armi, la necessità di parlare chiaro
Alessandro De Angelis
I cadaveri con le mani legate dietro la schiena a Bucha, le donne calpestate dai carri armati a Irpin. Come si traduce questo collasso di civiltà in italiano, oltre la semplice denuncia dell’atrocità? Fino a che punto la “radicalità” del male, parafrasando Hanna Arendt, è così insopportabile, da rendere altrettanto insopportabile la “banalità” del male, intesa come corrente pigra e velo sulla crudezza della realtà?
Non c’è da prendersela con l’opinione pubblica. Se la domanda è se investire in pensioni o in carri armati, la risposta è ovvia: pensioni. Poi però succede che, nel cuore dell’Europa, arrivano i carri armati e a Bucha, Irpin, Mariupol, la pensione in piazza non se la gode nessuno. E non è una fiction di controfigure (sic!) evocata nel delirio complottardo del “Dupre” di Carlo Freccero e Ugo Mattei. O l’ultima trovata dei tanti fenomeni da talk, diventati – solo in Italia – protagonisti del racconto collettivo: “Il nemico è la guerra non Putin”, come se la guerra si fosse scatenata da sola. Come se non ci fosse un aggressore e un aggredito, senza un motivo. Che è poi il cuore della questione, spesso rimosso dai sofismi.
Il problema, nella “traduzione” che manca tra quelle immagini e una “politica”, è una certa postura della classe dirigente nazionale, anche quella seduta dalla parte giusta della storia, che, al quarantesimo giorno di guerra, è ancora timida su un “discorso di verità” in merito ai sacrifici che siamo disposti a tollerare per una causa giusta. Non “morire per Kiev”. Ma la difesa della libertà, la loro, che è anche la nostra e il suo rapporto con Pil e salari. Il suo prezzo: al benzinaio, nelle bollette, nei viaggi. Non lo fissa il mercato, ma la “connessione sentimentale” che su una politica una classe dirigente riesce a stabilire col paese.
Persi nella gabbia economicista per cui pagare le forniture in euro piuttosto che in rubli, non interromperli, sembra un elemento di resistenza straordinaria, spiazzati dagli allarmi di Confindustria sul Pil (sai che notizia, in tempi di guerra), intimoriti anche dalla parola “scostamento” per gli effetti sul debito, anche i migliori, da Draghi giù pe’ li rami non hanno finora preso di petto la questione di fondo, forse con l’eccezione di Letta, radicale con la sua proposta di embargo. Spiegando al paese il senso e il costo di un “volta-pagina” storico perché, anche se domani si dovesse firmare un accordo di pace, non tornerebbe tutto come prima. Eppure il Covid, altro salto della storia, ha insegnato che la sfida si regge solo un rapporto forte con l’opinione pubblica perché c’è non decreto che tenga, senza un consenso sulle misure prese.
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