“È solo un’influenza”: adesso la guerra fa più paura del Covid

di Ilvo Diamanti

Da oltre un mese, la guerra in Ucraina è divenuta la principale, quasi unica, “emergenza”, secondo l’opinione pubblica. In Europa e, naturalmente, in Italia. D’altra parte, è una “guerra in diretta”, che si combatte sotto gli occhi tutti. In tempo reale. Per questo motivo, attrae l’attenzione generale e s-valuta “paure” che, fino a pochi mesi fa, coinvolgevano e sconvolgevano gran parte dei cittadini. La pandemia, in particolare. Secondo i sondaggi condotti da Demos, infatti, l’inquietudine suscitata dal Covid, fra gli italiani, è scesa ai livelli minimi da quando, nel marzo 2020, si è propagata nel Paese.

Le tavole

Nelle settimane recenti, in particolare, la quota dei cittadini che dichiarano di sentirsi preoccupati dal Covid è scesa al 53%. Ancora molto, ma solo 4 mesi prima, a dicembre, questo sentimento coinvolgeva l’80% delle persone. E un anno fa oltre il 90%. Quasi tutti. Assistiamo, dunque, a un sensibile raffreddamento del clima di “paura virale”. In contrasto con l’andamento dei contagi, che, nello stesso periodo, appare, nuovamente, in crescita. Non solo in Italia, anche in Germania e in Francia, per esempio.

Tuttavia, dal 1° aprile, per decisione del governo, è cessato lo stato di emergenza. E le norme che regolano la nostra vita pubblica sono cambiate sensibilmente. Riguardo al lavoro, la scuola, il tempo libero. Anche il nostro “volto” è destinato a mutare. Libero da mascherine, che rendono difficile “ri-conoscere” anche le persone che “conosciamo” bene. Le ragioni che spiegano questa “svolta” sono diverse. In buona parte, note. In primo luogo, i vaccini. Oltre 8 persone su 10, infatti, si sono vaccinate. Gran parte degli italiani (il 66%) ha già fatto la terza dose. Mentre le categorie più a rischio hanno iniziato ad assumere una ulteriore dose. La quarta.

Ma la campagna vaccinale ha prodotto un altro importante effetto. Il ridimensionamento delle conseguenze virali. Anche se la diffusione del contagio prosegue, perché il virus, a sua volta, “varia” e il passaggio da una “variante” all’altra ne riduce gli effetti sulla nostra salute. A causa, tra l’altro, del reciproco adattamento fra noi e il virus. Così, oggi, il Covid-19 è paragonato a un’influenza. Per durata e impatto.

L’adattamento, però, non riguarda solo la salute. L’aspetto fisiologico. Coinvolge, inoltre, il piano “psicologico”. In altri termini, dopo due anni, ci siamo abituati alla “paura virale”, che, di conseguenza, “fa meno paura”. È divenuta quasi normale. Con il rischio, ben noto, di pensare, o meglio: illudersi, che non vi sia più motivo di vivere “mascherati” e distanziati. Se non isolati. Al contrario, il bisogno degli altri, dopo tanto tempo trascorso in solitudine coatta, favorisce il ritorno, rischioso, alla socialità. A viso aperto e scoperto. Soprattutto in estate.

È significativo, per questo, osservare come, nel sondaggio di Demos, il maggior grado di preoccupazione coinvolga le classi d’età opposte. Anzitutto, i più anziani e vulnerabili. Pressoché due terzi degli ultra 65enni, infatti, si dicono (molto o abbastanza) preoccupati dal rischio di contagio. Consapevoli delle conseguenze e dei pericoli che potrebbe provocare su di loro. Un sentimento condiviso da oltre metà fra le persone più giovani, condizionate dal timore di vedere compromessa, oltre alla salute, la loro attività. Nella scuola e nel lavoro.

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