Guerra Russia-Ucraina: i killer esibiscono la morte, noi non ci possiamo voltare

Domenico Quirico

Dopo Bucha, dopo aver visto le immagini dei civili ucraini uccisi, noi spettatori siamo costretti a comunicare con le ombre. Ci hanno costretto gli assassini a comunicare con le ombre. Alcune sono cupe e terrificanti, quelle di coloro che hanno ucciso, pare con cattiveria ebete e viperina. Le altre sono quelle strazianti delle vittime abbandonate tra quelle case, avvolte nel tetro silenzio della loro rovina… Nessuno prende il posto di chi è scomparso, di questa come di altre generazioni di oggi che nella guerra sono state sepolte dalla cenere. Con terrore pensiamo che la vita della gente, dopo questo, scorrerà ancor più vuota e amara tra pensieri di rivalsa e voglia di resistere. A tutto il resto rischiano di restare insensibili e inaccessibili. Mi chiedo se una colpa tra le tante di chi ha avviato una guerra così crudele non sia quella di averne avvelenato lo spirito per sempre e se riusciranno a far altro che subire violenza o infliggerla, a non diventare traboccamento di fiele e di vendette.

La violenza della guerra è casuale. Non ha senso. E coloro che lottano per il dolore di queste vite perdute devono, credo, ora lottare anche con la consapevolezza che quella perdita è stata inutile e assurda.

I russi, gli aggressori, ci costringono ancora una volta a dare di nuovo la parola alla morte, cercare di darle un senso che ci permetta di non ribellarci vanamente ad essa come di fronte a un fato crudele e insensato. Abbiamo da tempo e invano in occidente cercato di immaginare “la buona morte” o almeno una morte che qualcuno ha definito “perbene”, civilizzata; e abbiamo inseguito la aspirazione egoista a non soffrire né per la nostra né per la morte degli altri. E eccola qua, a Bucha, la morte vera, la cattiva morte, la morte da cani, riversi in una strada o gettati in una fossa come spugne inutili imbevute di cose vissute e sofferte. Ci alita in faccia il suo fiato pestifero.

La macchina fotografica e la telecamera agiscono come un occhio allungato sulla vita e la morte degli altri. Occorre che non restino, “i cadaveri impressionanti” che l’obiettivo ha fissato nel tempo, come la prova di una eccezione che riguarda alcuni sfortunati ma un esempio di una condizione esistenziale in cui noi viviamo. Nel ventunesimo secolo si muore anche così. Che è un modo non per dire che queste morti valgano meno. Ma per restituir loro almeno la dignità della prova, dell’essere esempio.

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