Sanzioni, così la nuova stretta sulla Russia: tassa sul petrolio o conti vincolati alla pace
di Federico Fubini
C’è qualcosa di strano quando il pacchetto di sanzioni più duro mai deciso su una grande economia produce, in apparenza, un’eterogenesi dei fini. Quando un mese dopo il blocco delle riserve della banca centrale il rublo prima crolla del 45% sull’euro, poi torna a un soffio da dov’era prima della guerra. C’è qualcosa d’imprevisto quando all’embargo che avrebbero dovuto mettere in ginocchio l’industria russa rischia di seguire un raddoppio, in volume finanziario, delle sue esportazioni. Oppure quando un default delle scadenze di debito in dollari, sempre annunciato, per il momento non arriva.
Il dibattito sulle nuove sanzioni da varare
Tutto questo ha spiegazioni razionali naturalmente, che gli sherpa europei avevano presente quando si sono riuniti domenica sera con le immagini di Bucha ancora negli occhi. Era la seconda volta che si vedevano in due giorni. Sempre a inseguire, sempre a ritoccare e rafforzare il pacchetto di sanzioni come chi sa che non basta, ma non riesce ad andare più lontano se non un passetto per volta. Sabato nella lista sono entrate misure sui trasporti e nuove banche russe (ma ancora non Sberbank, la maggiore, perché Berlino si oppone).
Per Putin la guerra è un affare
Ma neanche questo basta a aggiustare ciò non funziona e il motivo è ormai evidente. Il rublo si rivaluta perché il Cremlino obbliga i colossi del gas e del petrolio, Gazprom e Rosneft, a comprarlo con i loro ricavi da almeno trenta miliardi al mese. Anche il fatturato da export è parte della stessa dinamica. Nel 2020 la Russia aveva esportato prodotti nel mondo per 330 miliardi di dollari, di cui le fonti fossili rappresentavano circa la metà. Ma ora che la stessa guerra di Vladimir Putin contribuisce a far salire i prezzi, gli idrocarburi da soli potrebbero fruttare alla Russia tanto quanto tutte le esportazioni di due anni fa, o anche più: nel 2022 circa cento miliardi di dollari il petrolio, 200 miliardi di euro il gas, 40 il carbone. Oltre naturalmente i proventi da alluminio, ferro, rame, nickel, oro, platino per almeno altri 60 miliardi di dollari. E altri 15 dai cereali, dato che nessuno di questi prodotti è sotto sanzioni e tutti hanno prezzi sospinti al rialzo dal rombo dei cannoni. La guerra, per Putin, è un affare.
La Germania frena
Di qui le nuove sanzioni che si stanno mettendo a punto a Bruxelles per erodere le grandi entrate del Cremlino. Non sarà facile, se si vogliono superare i timori dei governi più divisi – Germania in primis – e contenere il trauma per l’economia europea. Dunque per ora non si sta lavorando sulle forniture di gas, ma sul carbone e sul petrolio. Sul primo dei due la scelta è quasi brutale: convincere il più grande consumatore europeo a rinunciarci; il governo di Berlino e l’industria tedesca devono decidere se sostituire il carbone russo con quello più costoso, per esempio, dell’Australia. La scheda
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