Qualcuno spieghi agli italiani che c’è la guerra. E non è gratis
La Meloni, che sarà pure filo Nato, ma dice “aridateci Trump” e gioisce per la vittoria di Orban. Mai però quanto gioisce Salvini: neanche una parola su Bucha, ma posta una sua foto con Orban, il quale a sua volta gioisce per la vittoria “contro Soros e Zelensky”. E poi Conte che, in un’indimenticabile intervista a Repubblica, a domanda sull’embargo, tema impopolare nel gradimento, risponde: “Siamo contro l’escalation militare”, vuoi mettere i sondaggi.
Meno male che almeno c’è Enrico Letta. Magari non è il massimo dell’empatia. Magari è ancora il massimo della prudenza, nel tirare le conseguenze con gli alleati e con un pezzo del suo mondo. Però un po’ di politica questa volta ce l’ha messa. E non era scontato in un partito pieno di suggestioni neutraliste. Coraggioso monocolo in valle caecorum. L’occhio del posizionamento ci vede benissimo, dalla lettura del presente come un “11 settembre europeo”, cesura dopo la quale, per la sua posta in gioco nulla sarà come prima, allo scarto sull’“embargo”, in sintonia più con le leadership europee che con l’ambiguità del dibattito italiano. Per una volta, anche un passo avanti rispetto al governo, di cui il Partito democratico è forse il sostenitore più convinto e leale.
C’è da vedere quanto questa sacrosanta intransigenza, questa volta, sia condizionante. Solo pochi giorni fa, sulle spese militari il punto di caduta è stata la famosa mediazione del 2028. Il che chiama in causa il secondo occhio, quello dello sguardo sul paese, e gli altri organi preposti a tradurre l’intransigenza dei principi in una politica. C’è poco da fare: anche i migliori, da Draghi in giù e da Draghi in su, ancora non hanno preso di petto la questione di fondo, persi nella gabbia economicista per cui va bene mettersi una mano sul cuore, ma senza toglierla troppo dal Pil, intimoriti dalla parola “scostamento” per gli effetti sul debito, preoccupati dagli allarmi di Confindustria. Finora si è considerato un elemento di resistenza straordinaria pagare le forniture in euro e non in rubli, interromperle viene considerata l’extrema ratio.
Insomma, se proprio ce lo chiedono, non tanto Letta ma i partner europei, non ci tireremmo indietro, preferendo però evitarlo per ragioni di politica interna e di rapporto con l’opinione pubblica: è la cornice europea che determina la dimensione del quadro italiano, e non viceversa. È la postura tipica di un alleato riluttante che, per una serie di ragioni di compatibilità internazionale, convinzioni, storia personale del premier si è collocato dalla parte giusta della storia, ma segue, più che anticipare gli eventi politici, per altrettante ragioni di compatibilità interna e formazione economica. Per cui c’è un discorso che manca, di verità in merito ai sacrifici che siamo disposti a tollerare in nome della difesa della libertà, la loro che è anche la nostra.
E se lo scatto di Letta ha un nobile discorso incorporato, secondo il quale nessun punto di Pil, neanche in un paese che non ha autonomia energetica, vale la libertà, il problema è proprio il suo svolgimento pubblico. Perché il prezzo della libertà, al benzinaio o nelle bollette, non lo stabilisce il mercato, ma il rapporto col paese che certo preferisce gli ospedali ai carri armati, ma comprende, se qualcuno se ne fa carico di spiegarlo, che i carri armati, in una capitale europea come Kiev servono a difendere gli ospedali. Il senso che viene dato a questa storia, in cui nella percezione pubblica ancora non è passato il messaggio che, anche se la guerra dovesse finire domani nulla ricomincia come prima, e per farla finire domani occorre una costosa intransigenza oggi.
Pages: 1 2