Le parole improprie di Zelensky per condannare i misfatti
Zelensky continua a definire «genocidio» l’uccisione di civili inermi da parte dei soldati russi nelle città dell’Ucraina, un termine che evoca altre stragi
Stupisce che Volodymyr Zelensky e molti dirigenti che si battono eroicamente al suo fianco insistano a definire «genocidio» l’uccisione di civili inermi a Bucha e in molte città ucraine prima occupate, poi lasciate dai russi. Che si tratti di crimini orribili riconducibili per intero alle truppe di Putin non può a questo punto essere messo in discussione. Neanche se in un futuro venisse fuori che una o due di queste stragi sono state sovradimensionate o attribuite a chi non le ha davvero commesse. La quantità della documentazione complessiva sui misfatti russi è tale da rendere improbabile che il giudizio di chi guarda in spirito di onestà intellettuale a questo delitto di proporzioni colossali possa essere modificato. Non è impossibile. Ma è molto, molto difficile.
Il Wall Street Journal, un quotidiano certo tutt’altro che ostile alla causa ucraina, si è, però, giustamente domandato perché Zelensky non si limiti a definire queste atrocità «crimini di guerra». E torni sull’errore da lui già commesso (e parzialmente ammesso) quando, rivolgendosi alla Knesset, ha evocato la Shoah. Che bisogno c’è di ricorrere ad una comparazione ad ogni evidenza impropria?
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Tanto più che un genocidio di riferimento Zelensky ce l’ha in casa. O, per meglio dire, lo può trovare nella storia del proprio Paese e nella sua memoria. Si tratta dell’Holodomor, la carestia voluta dal gruppo dirigente dell’Urss, che tra il 1932 e il 1933 uccise quattro o cinque milioni di ucraini. È documentato che Stalin intendesse sbarazzarsi di quei contadini ritenendoli potenzialmente ribelli. Li affamò deliberatamente, chiudendo i confini della regione, requisendo il grano e lasciandolo a marcire in silos sorvegliati da militari. Fece addirittura sopprimere ogni tipo di animale (cani, gatti, uccelli, selvaggina, distruggendo persino i nidi) che avrebbe potuto sfamare i suoi sudditi. I quali sudditi furono costretti a «nutrirsi» di radici e cortecce. Per morire — a milioni — di denutrizione, di fame. Alla lettera. In alcuni momenti, nell’autunno del ’33, si registrarono casi di cannibalismo. A conferma poi della non riconducibilità di quel che all’epoca accadde in Ucraina al clima o ad altre cause naturali, è la circostanza che le terre circostanti non furono afflitte da analoghe sciagure.
Raphael Lemkin, il giurista polacco che nel 1944 coniò il termine «genocidio», sostenne che l’Holodomor andava annoverato in questa tipologia di crimine. Robert Conquest, lo storico che per primo si è occupato dei misfatti staliniani, documentò come quei milioni di morti ucraini andassero messi nel conto di «politiche pubbliche intenzionali» piuttosto che della scarsità dei raccolti. Diverso fu invece il parere di Aleksandr Solzenicyn. Per l’autore di «Arcipelago gulag» — che pure ne mise in evidenza gli orrori — la crisi alimentare ucraina del ’32-’33 ebbe aspetti simili a quelli di un’altra carestia. Quella che — dieci anni prima, tra il 1921 e il 1922 — aveva flagellato la Russia di Lenin sconvolta dalla guerra civile. Ma nel libro «Lo stato criminale. I genocidi del XX secolo» (Corbaccio) Yves Ternon afferma che la «natura genocidaria» dell’Holodomor è ormai ampiamente provata. Tant’è che nell’ottobre 2008 una risoluzione del Parlamento europeo ha classificato quel flagello come «spaventoso crimine contro l’umanità». E nel mese di novembre dello stesso anno la Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca l’ha definito «genocidio».
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