La vergogna del saccheggio: come i loro nonni nella Germania nazista i soldati russi spogliano gli ucraini dei propri beni

Domenico Quirico

Nel 1944 le uniche pagine di giornale che i soldati russi non usavano per arrotolarsi le sigarette erano quelle in cui erano pubblicati gli articoli scritti da Il’ja Erenburg. Quelle erano parole sacre: «Se hai ammazzato un tedesco ammazzane un altro… non c’è niente di più allegro dei cadaveri tedeschi… Germania, tu puoi ora rotolarti su te stessa e ululare nella tua agonia mortale… l’ora della vendetta è suonata». Chissà se alcuni di loro avevano letto anche il Deuteronomio: «Quando il Signore ti avrà dato la città del nemico nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici…».

Alle spalle di quei soldati c’erano tre anni e mezzo di lutti e di violenza. Indimenticabili. Immortali. La guerra non rende la gente più tenera. Al contrario la rende volgare e molto crudele. Adesso per i soldati russi era arrivato il momento di rovesciare le parti. I «politruk» che affiancavano le unità della Armata rossa, i commissari politici che vegliavano sull’umore della truppa e sulla reverenza al verbo del padre Stalin, incitarono: «Voi state per diventare esecutori di giustizia, dovete essere l’incarnazione del tribunale della giustizia del vostro popolo». Quando superavano la frontiera prussiana i soldati piantavano una piccola bandiera rossa e si radunavano per una ultima riunione di coscienza politica. Gli ufficiali ricordavano i crimini che erano venuti a vendicare, le violenze perpetrate sulle donne russe, i villaggi e le città bruciate, le lacrime delle madri. Ora era arrivato il momento di spogliare il cadavere tedesco.

Mi è venuto in mente tutto questo leggendo le denunce di saccheggi nelle zone del nord dell’Ucraina attorno a Kiev occupate dall’esercito russo per un mese prima del ritiro oltre la frontiera bielorussa. A cui si aggiunge una sequenza di immagini che, secondo molti, sarebbe la prova di questi saccheggi. Soldati che spediscono a casa, nella allegra confusione di una marachella ben riuscita, nelle scatole di uno spedizioniere bielorusso il bottino, come all’uscita di un centro commerciale: televisori telefonini, computer. I potenti invasori sembrano dunque più poveri di coloro che hanno aggredito. Negli occhi dei saccheggiatori aleggia il piacere: lusso, confort, tecnologia, parole straniere nella Russia, eterna pezzente ma con i missili e la Bomba.

Nelle buie settimane di Bucha gli uomini furono scritti sulla lavagna nera come numeri a più cifre, un colpo di spugna sopra, ecco, cancellati. La roba, quella no, quella è importante. Bisogna portarla a casa. Anche così quello che è accaduto si fa palese. Parla. Gli oggetti rubati sono scorie del consumismo povero. In poco tempo si sfasceranno, saranno gettati via. Non diventeranno, temo, un passato che non dà pace.

Il saccheggio è la vergogna della guerra, da sempre: il vincitore esige il diritto di prendere tutto al vinto, la vita, le donne, i beni. Quello che non può portar via deve essere distrutto per cancellarne la memoria. È la spogliazione del cadavere. In mezzo ai resti fumanti, ai morti abbandonati, dalle porte e dalle finestre divelte dai saccheggiatori rinasce il miserabile commercio delle cose rubate. La guerra è quello che i barbari furono per le società antiche, agenti convulsi di distruzione e dissoluzione. Oltre che l’omicidio anche il furto diventa lecito, autorizzato, in fondo giusto compenso alla fatica spesa per cacciare il nemico. Un tempo i generali lo promettevano ai soldati per motivarli o renderli pazienti: poi vi rifarete nella città conquistata… Oggi la differenza è che nessuno lo dice esplicitamente.

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