Noi italiani viviamo nel melodramma, speriamo che qualcuno vinca la guerra al posto nostro

di  Mattia Feltri

Una cosetta all’apparenza marginale: apprendo dell’uscita in edizione italiana, per cura dell’editrice Aga, di un libro di Aleksandr Dugin – Il grande reset – con prefazione di Francesco Borgonovo. Dugin è un filosofo fondamentale per capire la Russia, la guerra, la piega che sta prendendo il mondo. In un’intervista concessa di recente al medesimo Borgonovo, ha chiamato all’appello chi è “a favore del proletariato e chi è a favore dei templari” per sconfiggere la società depravata costruita dal globalismo occidentale, teso a demolire le identità nazionali e culturali, a omologare nelle logiche di mercato senza frontiere, a destrutturare la famiglia con la diffusione delle teorie gender. Non posso non leggere un libro di tale calibro. Lo cerco vanamente su Amazon e non c’è. In effetti, penso dopo, sarebbe stato bizzarro trovarlo su Amazon, la cattedrale del globalismo. Chiedo a una collaboratrice di recuperarmelo, magari contattando l’editore e l’editore risponde qualificando la sua impresa come militante e schierata, avversa all’atlantismo, alla Nato, alla liberaldemocrazia e io sono considerato ostile, poiché leggono quanto scrivo e quando dico in Tv (chi abbiano visto in tv non lo so, ma di certo non ero io) e, insomma, se desidero una copia del libro non saranno loro a spedirmelo, devo comperarmela sul loro sito. 

In effetti sì, il problema non era il prezzo di copertina, e comunque il punto è un altro: la lettura della mail di risposta mi ha fatto venire su il fiato. Finalmente qualcuno che sa chi è e che cosa vuole, che non vive di infingimento e di gloria della ribalta, che non si preoccupa di piacere, di avere un pubblico di riferimento, di inventarsi un nemico e una minaccia molto personali, di costruire attorno a sé una scenografia e una sceneggiatura: finalmente qualcuno che dice chi è (avverso all’atlantismo, alla Nato, alla liberaldemocrazia) e siccome io sono favorevole all’atlantismo, alla Nato e alla liberaldemocrazia gli sono ostile. Punto, senza tante geremiadi, senza tante frignate. Senza premesse furbine a introdurre il discorso losco, nebbioso, ambiguo, e lo dico immerso nella mia cultura intrisa di sfumature di grigio, da avversario ormai marmoreo dei bipolarismi, o di qua o di là. È che quando c’è una guerra, e per di più una guerra di aggressione, un’invasione di spettacolare ferocia e tracotanza, e cioè quando cantano i fucili e i missili, e dal lato degli invasori c’è chi si dichiara nemico del mio mondo, la zona grigia bisogna avere il coraggio di abbandonarla: se vogliamo parlare dei limiti o degli errori della Nato, della globalizzazione, delle liberaldemocrazie, parliamone ma, semplicemente, non è questo il momento, adesso fischiano i proiettili.

Voglio sapere chi è e che cosa vuole Dugin, voglio sapere di Ivan Ilyn, il filosofo del secolo scorso al quale Vladimir Putin si ispira nella sua idea eurasiatica, della Grande Russia organismo vivente di natura e anima, estesa da Lisbona a Vladivostok, su cui ha scritto un grande pezzo qui oggi Nicola Mirenzi. Voglio sapere qual è la questione in ballo, perché siamo di fronte di nuovo a un pensiero forte, addirittura a un’alleanza – forse ancora in bozza ma non so quanto – fra i sostenitori del proletariato e dei templari, e cioè a un’alleanza rossobruna declinata nel Ventunesimo secolo. Voglio sapere quale eredità novecentesca abbia quest’alleanza, e cioè quale eredità del nazismo del millenario Reich e della tradizione esoterica, quale eredità del socialismo catartico ed edificatore dell’uomo nuovo, quale eredità da questi due pensieri forti che hanno condotto l’umanità del secolo scorso dritta alla pazzia e allo sterminio.

Ma noi oggi in questo paese non siamo più in grado non dico di vincere una guerra, nemmeno di combatterla, dico di guardarla e di parlarne, perché il nostro è irrimediabilmente pensiero debole e lo sostengo con un certo struggimento perché il pensiero debole – nel conio etico di Pier Aldo Rovati e Gianni Vattimo, e cioè la rinuncia della filosofia a rifondare l’umanità, a mirare a obiettivi tanto sbalorditivi da giustificare qualsiasi crimine – è il fondamento del mondo in cui vorrei vivere, un mondo in cui l’uomo ha rinunciato all’abracadabra, ha riconosciuto la sua fallacia e i suoi limiti, cerca di cavarsela da piccolo essere finito piombato dentro l’infinito. Il problema è che il pensiero debole, se portato alle estreme conseguenze dell’intrattenimento quotidiano, se si trasforma come si è trasformato in una irrimediabile inconsapevolezza, in una dimensione da diporto, in una spaventosa assenza di senso del tragico, allora davanti al ritorno del pensiero forte si ritrova disarmato, lo scansa, lascia suonare l’orchestrina.

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