Noi italiani viviamo nel melodramma, speriamo che qualcuno vinca la guerra al posto nostro

La fatica di trovare le parole per la guerra, per la carneficina, per le conseguenze sul domani e sul dopodomani, sulla posta in palio, e intendo il trovare parole che conoscano il rischio del ridicolo, e lo affrontino con disagio e prudenza, è travolta dallo scialo, dall’alluvione di parole che quel rischio lo affrontano a petto in fuori, anzi non lo vedono proprio, dallo smitragliamento quotidiano di verbosa egolatria imposto da leader politici che il senso del tragico lo vivono, se lo vivono, giusto per uno 0.2 per cento in meno nell’ultimo sondaggio, e smitragliano per rimediare, e lo smitragliamento imposto da commentatori e opinionisti impegnati a costruire il monumento di sé al centro della piazza della loro città immaginaria. Ma come si fa, santo cielo, a mettersi davanti a una telecamera, ogni santa sera, a fare l’autobiografia in elevatezza morale, a parlare di censura, di pensiero unico, della propria coraggiosa ribellione, a pronunciare espressioni scialbe come schiena diritta e fuori dal coro, quando il coro è incessante, ogni santa sera, su ogni santo canale, e gli articoli l’indomani sul giornale, e il libro in libreria, tutte le porte aperte, ventiquattro ore su ventiquattro, come si fa a dire queste cose con l’indice puntato all’ombelico, e non ridestarsi un solo secondo dall’ipnosi, quando dall’altra parte della sparatoria c’è la Russia dei dissidenti assassinati, rinchiusi in carcere, dell’informazione controllata dal Cremlino, della menzogna senza alternative alla menzogna, della dittatura edificata e rinsaldata anno dopo anno sotto gli occhi ciechi dell’Occidente? Come si fa a ingaggiare battaglia di aggettivi, un’edizione via l’altra, editoriali che sono rassegne stampa su quanto è scemo o disonesto il tal collega e il tal altro, ovvero la periferia più disagiata del pensiero, quello debolissimo, come si fa ad animare un rimbeccare di polli davanti alla sciagura umanitaria, al rivolgimento globale, all’orizzonte d’abisso che ci si para davanti, se non per la perdita di un minimo, intermittente senso del tragico?

Se ci potessimo vedere da fuori, dalla collina mentre sotto tutto brucia, vedremmo come siamo ormai soltanto attori del melodramma, melodrammaticamente italiani, capaci di fare piccolo il grande e grande il piccolo, niente di meglio, niente è sottratto alla bega di cortile e di ringhiera, un bel gesticolare, il grido di strazio più compiaciuto, l’enfasi, l’esagerazione da palcoscenico, il falso e il verosimile, insomma la pura recita nella compagnia di giro e per il trambusto del loggione. Bisogna invocare il cielo che qualcuno questa guerra, un’altra volta, la vinca al posto nostro.

L’HUFFPOST

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