Sergio Romano: “Impensabile un mondo vivibile senza che la Russia abbia un ruolo”

dDavide D’Alessandro

A pochi mesi dai 93 anni (il 7 luglio), l’ambasciatore Sergio Romano conserva un’invidiabile lucidità. I telefoni squillano, il computer fa le bizze, la penna è sempre sulla carta, i suoi libri aiutano a comprendere che cosa è stato il secolo scorso e che cosa potrà essere il secolo che viviamo.

Caro Professore, a che punto è la notte del mondo? Se dovesse raccontarla a un nipotino, come la spiegherebbe?

Non è mai facile parlare ai nipotini di fatti complessi. C’è una guerra in corso. E le guerre finiscono solo quando c’è un vincitore. In questo momento è difficile fare negoziati. Al negoziato ci si va o quando si è battuti o, soprattutto, quando si ritiene di aver raggiunto il possibile. Per ora non c’è né la prima né la seconda cosa.

Ma lei ha compreso che cosa vuole Putin?

Occorre partire dalla constatazione che la guerra fredda è finita. Era fredda ma correva il rischio di diventare calda. La possibilità di un nuovo conflitto non veniva mai ignorata, però pensavamo a una migliore convivenza. Non è accaduto. Dopo la guerra fredda ogni Stato ha dovuto darsi una fisionomia e chiedersi cosa andare a fare nel mondo e con quale ruolo. Per la Russia è sempre stato molto complicato. Darle un ruolo significava restituirle, per quanto possibile, l’influenza avuta. Putin ha incarnato questa esigenza. È un nazionalista molto consapevole, desideroso di ridare al Paese un ruolo internazionale. Fino a poco tempo fa niente poteva essere deciso e fatto senza l’Unione sovietica. È un capo che esagera, con il quale possiamo non essere d’accordo, ma è un nostalgico. Vuole che la Russia conti. Per lui il passato è importante. Ricerca la restaurazione del potere perduto”.

In Russia c’è dittatura, democrazia, democratura o autocrazia?

Il termine democrazia, per la Russia, è un vecchio problema. Hanno tentato più volte di coniugarlo, ma si sono accorti che non funziona. O sono estranei a questo tipo di cultura o le circostanze hanno imposto di tentare altre formule. Sa, questa è una fase in cui la politica deve cedere il passo alla psicologia e i russi hanno una caratteristica psicologica particolare, diversa dagli altri, anche perché hanno avuto esperienze storiche molto diverse.

In guerra è tutto lecito o si possono evitare alcune atrocità?

Adesso non è una guerra qualsiasi. È una guerra civile. All’inizio il tema era evitare che gli Stati Uniti allungassero le posizioni verso un Paese ritenuto nemico e nessun paese è tranquillo se vede il nemico avanzare. Poi il conflitto ha cambiato carattere. I russi, ritirandosi dalle loro posizioni, hanno lasciato uno spettacolo orrendo. I crimini sulle popolazioni civili. E le guerre civili sono sempre irrazionali. La storia di questi due Stati è costellata da ambizioni concorrenti, da un rapporto assai tormentato. È difficile dire come finirà.

Senza voler fare i profeti, lei che sensazioni ha?

Quando chiedo a qualcuno come finirà, mi risponde sempre come spera e non come pensa.

E lei come spera?

Non ho mai sperato in un mondo ideale, ma vivibile sì. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Cina e la Russia. Non è pensabile un mondo vivibile senza che la Russia abbia un ruolo. Però, se posso dirle, sono rimasto colpito positivamente dalla Cina. Si sta comportando in modo esemplare, con garbo, finezza e intelligenza. Ha certo un amico, la Russia, ma l’atteggiamento non è clamorosamente di parte.

Eppure molti osservatori e analisti ritengono ambiguo l’atteggiamento cinese…

Ammetto che la mia visione sulla Cina, per certi aspetti, è partigiana. L’Italia, fino agli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, aveva riconosciuto la Cina nazionalista, Formosa e Taiwan, ma non quella comunista. Pietro Nenni, da ministro degli Esteri, aveva conosciuto Mao, e decise fosse arrivata l’ora di compiere il grande passo. Fu dato mandato all’ambasciata di Parigi di avviare i contatti. Io ero nella capitale francese e ci volle un anno, tra conversazioni, cene, pranzi, continui scambi di vedute, per portare a termine il progetto di riconoscimento. Durante quell’anno ho capito i cinesi. Oppure ho finito per credere di averli capiti.

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