La nuova geopolitica con la guerra in Ucraina: diviso e militarizzato il mondo non è più lo stesso

Domenico Quirico

Mi faccio volontario per una constatazione sgradevole, sommamente impopolare: in Italia non abbiamo ancora preso coscienza della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina e delle conseguenze «globali», si dice così, sul mondo che verrà. Siamo immersi, dopo quaranta giorni di guerra furibonda, ancora nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri. Che è già defunto, sconvolto da ininterrotte scosse vulcaniche proprio in questa terra europea, murato nelle tenebre.

Eppure ogni giorno abbiamo davanti le immagini per comprendere, basta aggiungere le didascalie. Nel Donbass urti di uomini e di mezzi corazzati quali non si vedevano dalla battaglia di Kursk tra tedeschi e russi nella Seconda guerra mondiale (è luogo per combinazione non lontano dalla geografia di questo conflitto, stesse pianure infinite, stesse isbe povere, stesso selvaggio furore); sono già in campo le armi di tutti i contendenti compresi quelli che per ora sembravano stare alla finestra; le possibilità di tregua sono scomparse, sono funebri rimorsi.

Il mondo che verrà sarà feroce, coperto di ferro, diviso da muri di avversioni profonde, l’Asia russo cinese contro l’Occidente americano, con le rispettive dipendenze, e coloro che guideranno il nuovo «impero del male» non saranno tipi alla Breznev e come il manieroso Xi Jinping ma assomiglieranno a Kadyrov il ceceno e a Kim Jong-un, il coreano delle Bombe.

La globalizzazione è già materia da trasferire agli storici, nasceranno economie belliche ferocemente concorrenti con cui bisognerà fare i conti, ognuna con la sua moneta, fortilizi autarchici in cui non si potrà entrare con i vecchi grimaldelli del «made in». La cultura indosserà la maschera dell’odio, ci sono già i segni, e non sarebbe purtroppo la prima volta. I musei degli uni e degli altri saranno purificati dai «prodotti del nemico», «decadenti» o «immorali», le partiture musicali censurate, i libri divisi in patriottici e pericolosi, gli autori espunti dal passato comune. Dimenticatevi che si canteranno le stesse canzoni o si guarderanno gli stessi film. Se già da qualche tempo aveste controllato la produzione media, di massa della cinematografia russa e cinese avreste avuto delle sorprese: «peplum» storici stile kolossal con le eroiche vittorie sugli invasori stranieri e i traditori autoctoni, o «action» con rambo versione locale.

Un mese fa pensavamo fosse una guerricciola ancora abbastanza lontana dai confini, non si sentivano le cannonate in fondo, in poche settimane tutto sarebbe finito e si poteva riprendere la solita monotona Storia. Un abbaglio allora comprensibile. Perché «da noi» è ancora così? Di chi la colpa?

Ascolto i giornali radio: c’è una frattura che toglie il fiato tra le notizie abbondanti, terribili della guerra, le minacce ormai aperte tra Russia e Occidente, e quello che segue che dà conto della politica italiana. Siamo testimoni di inaudite metamorfosi mondiali ma il governo nei suoi massimi rappresentanti, il premier e i due ministri degli Esteri, quello vero e l’amministratore delegato di Eni, è impegnato in un affannato tour per sedurre e riempire di soldi alcuni discutibili Paesi africani alla ricerca di petrolio e gas. I contratti vengono salutati come vittorie campali sull’esercito di Putin. I partiti intanto, a casa, si dedicano con furore vichingo allo scontro sul problema quasi secolare della separazione delle carriere dei magistrati. Tutti sanno che poi tanto si «troverà la quadra» come si dice con italiano orribile.

Il dibattito sull’aumento delle spese militari che pure era una fondamentale occasione non solo di una riflessione politica sul riarmo ma anche sulla preparazione dell’esercito in caso di necessità, è affondato nell’astuto stratagemma italiano, in uso dalla proclamazione del regno nel 1861: rinviare il tutto alle calende greche, diluire, assumere ma in modo omeopatico. Tutti felici contenti del si vedrà. Tra poco soldati italiani saranno schierati alle frontiere della Russia nell’esercito della Nato. Non è la solita operazione di peacekeeping con il casco blu in qualche savana o deserto per distribuire sacchi di farina. È la cosa più pericolosamente vicina alla guerra dal 1945. Se ne parla politicamente come se fosse una delle tante esercitazioni.

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