Medvedev, l’ex presidente russo gentile diventato uno dei falchi di Putin

di Paolo Valentino

Quando nel 2009 subentrò a Putin al Cremlino, illuse la Russia su una svolta liberale. Ormai ha gettato la maschera. Ecco il ritratto di questo uomo di potere cresciuto all’ombra dello Zar

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — Il 12 novembre 2009, nella sala di San Giorgio al Cremlino, il presidente della Russia parlò di «rinnovamento e valori democratici». Promise una «società di uomini liberi» con pieno accesso all’informazione al posto di «una società arcaica, dove il capo pensa e decide per tutti». E disse che avrebbe chiesto aiuto anche a esperti stranieri «per modernizzare le strutture arcaiche dell’economia russa». Dmitrij Medvedev era stato eletto poco più di un anno prima al posto di Vladimir Putin, costretto a lasciare dalla limitazione del doppio mandato prevista dalla Costituzione. E il suo arrivo al Cremlino aveva suscitato grandi speranze dentro e fuori la Russia: «La libertà è meglio della non libertà», aveva detto in campagna elettorale. Alla timida liberalizzazione interna, si era accompagnato il celebre «Reset» con la nuova Amministrazione di Barack Obama, che aveva dato l’illusione di una nuova era di dialogo culminata con la firma del Trattato New Start che tagliava drasticamente gli arsenali nucleari di Russia e Usa. Sorridente, quasi timido, per nulla aggressivo nei toni, grande fan dei Deep Purple, Medvedev divenne per un periodo l’immagine della nuova Russia.

Facciamo un salto di 13 anni e ritroviamo il nostro con la stessa aria giovanile. Ma sono i suoi discorsi a essere radicalmente cambiati. Non c’è più traccia dei toni liberali di allora. Oggi Medvedev, 56 anni, vice-presidente del Consiglio per la Sicurezza nazionale, è uno dei falchi del Cremlino e spesso la sua retorica è ancora più minacciosa di quella di Putin. Attivissimo e prolisso su Telegram, difende a spada tratta la guerra. Chiede la reintroduzione della pena di morte. Minaccia le imprese occidentali di confiscare i loro beni. Accusa gli Stati Uniti di voler «umiliare, ridimensionare, dividere e distruggere» la Russia. Ma avverte che questa «ha il potere di annientare tutti i suoi peggiori nemici», vantandone il potenziale nucleare. Attribuisce alla falsa propaganda dell’Occidente e dell’Ucraina le notizie sui crimini di Bucha, «fabbricate ad arte da media ben pagati». Parla dei nazisti e delle «bestie» di Kiev da eliminare. E sogna, grazie alla «denazificazione e smilitarizzazione» dell’Ucraina «un’Eurasia aperta da Lisbona a Vladivostok». Dulcis in fundo, lo ha fatto ieri, definisce Zelensky «un mostriciattolo».

Clamorosa per quanto possa sembrare, la metamorfosi di Medvedev si spiega in modo relativamente semplice, con il suo rapporto di totale fedeltà e sudditanza nei confronti di Vladimir Putin, che conobbe nel 1990, quando entrambi si ritrovarono a lavorare per l’allora sindaco di San Pietroburgo, Anatoly Sobchak. Da allora non si sono più lasciati. Otto anni più grande, Putin è sempre stato la figura dominante, in una dinamica che non è mai cambiata in trent’anni. Giusta la definizione coniata da un ex ambasciatore americano in Russia, secondo la quale Medvedev sta a Putin come Robin sta a Batman.

Fu la sua incondizionata lealtà che convinse Putin, nel 2008, a scegliersi lui come successore temporaneo alla presidenza, diventando il suo primo ministro. In quei mesi, un dispaccio dell’ambasciata americana di Mosca inviato a Washington, raccontò la barzelletta che circolava in città: «Medvedev è seduto in un’auto nuova di zecca al posto del guidatore. C’è tutto: il cruscotto, il cambio, l’acceleratore, il freno. Manca lo sterzo. Allora si gira verso Putin che sta seduto dietro e chiede: Vladimir Vladimirovich, dov’è lo sterzo? Putin tira fuori un telecomando dalla tasca e dice: nessun problema, guido io». L’aneddoto è crudele. Ma illustra bene il punto: Medvedev non è mai uscito dall’ombra del suo master.

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