Il dilemma del genocidio: si esige la prova dell’intento di distruggere un “gruppo”
Francesca Mannocchi
L’aveva definito un uomo brutale, poi un criminale di guerra, infine due giorni fa il presidente Joe Biden, in quella che la CNN ha definito «una drammatica escalation retorica nella visione degli Stati Uniti di ciò che sta accadendo in Ucraina» ha definito gli atti compiuti da Putin in Ucraina un genocidio. Durante il comizio in una fabbrica di etanolo in Iowa, dopo aver incolpato Putin dell’aumento del prezzo del carburante, ha detto: «Il budget familiare, la capacità dei cittadini di riempire i loro serbatoi, non dovrebbero dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta un genocidio dall’altra parte del mondo» ribadendo che nelle ultime settimane sia diventato sempre più chiaro che Putin sta cercando di spazzare via l’idea di poter essere ucraino. Si riferiva alle immagini di Bucha, ai crimini che emergono ad ogni città e villaggio liberati dalle forze ucraine. Dichiarazioni, quelle di Biden, particolarmente significative perché gli Stati Uniti sono storicamente riluttanti a usare la parola genocidio, e come ha recentemente sottolineato il segretario di Stato Antony Blinken in riferimento al massacro di civili da parte delle forze militari in Myanmar, era solo l’ottava volta nella storia che gli Stati Uniti stabilivano che si fosse verificato un genocidio.
Delle dichiarazioni di Biden si è immediatamente rallegrato il presidente Volodymyr Zelensky, «chiamare le cose col loro nome è fondamentale per resistere al male», ha scritto. Ha invece preso le distanze, ieri, Macron che ha invitato alla prudenza rifiutando quella che ha definito una «escalation delle parole». Erano stati cauti anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il segretario di Stato americano Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan compatti sull’idea che stiamo assistendo ad atrocità e crimini di guerra ma – per dirla nelle parole di Sullivan – «non abbiamo ancora visto un livello di privazione sistematica della vita del popolo ucraino salire al livello di genocidio».
Lo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte penale internazionale (CPI) nel 2002, definisce genocidio gli «atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», in quanto tale, il genocidio è uno specifico crimine di guerra che è più grande dell’uccisione illegale di civili, la legge richiede la prova dell’intento di distruggere il gruppo e molti giuristi sono scettici sulla effettiva capacità di poter provare la responsabilità del genocidio.
È cauto anche Jonathan Leader Maynard, docente di politica internazionale al King’s College di Londra, dove si occupa di genocidio e dinamiche ideologiche della violenza politica.
Maynard è cauto nell’esprimere giudizi sulla violenza mentre è ancora in corso: «Sappiamo che le forze russe hanno commesso atrocità ma non possiamo stimare in modo affidabile la loro portata esatta. Abbiamo segnali allarmanti di una possibile pianificazione per i massacri di civili, compresi i primi rapporti dell’esercito russo che trasferisce crematori mobili in Ucraina, ma molti dettagli rimangono non confermati. Non sappiamo praticamente nulla degli effettivi ordini dietro le uccisioni specifiche di civili e stiamo solo iniziando a capire quanto sia stata organizzata e sistematica la violenza. Non è un caso che le principali Ong responsabili del monitoraggio dell’occorrenza e dei rischi di genocidio – come GenocideWatch o Early Warning Project of the United States Holocaust Memorial Museum – non abbiano ancora emesso un avviso di rischio di genocidio per l’Ucraina» scrive su Just Security, centro per l’analisi della sicurezza nazionale, della politica estera e dei diritti presso la New York University School of Law.
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