Letta-Meloni, caro nemico ti scrivo
Per tubare, tubano, quasi come due tortore in primavera, anche perché forse li accomuna una certa grammatica da Seconda Repubblica: le presentazioni dei libri, i giornali, le feste di partiti, cose normali prima del diluvio social e dalla politica in diretta Facebook. E se lui scrive al Foglio, giornale elitario ed atlantista, per il suo manifesto neo-spinelliano, lei interloquisce con garbo, pubblicando, sullo stesso giornale, il suo manifesto, diciamo così, conservatore.
Insomma, “caro Letta”, “cara Meloni”, i due parlano, mai un attacco crudo, si legittimano – anche criticarsi un po’ significa legittimarsi – e in fondo anche questo fa molto Seconda Repubblica, come quando Fini diventò l’interlocutore, simbolo della destra presentabile rispetto all’impresentabilità berlusconiana, e ora c’è il problema dell’impresentabilità salviniana, con cui però il Pd è al governo: mica male. Sul Quirinale è franato il patto implicito, che suonava più o meno così, “mandiamo Draghi al Colle, e noi ci giochiamo Palazzo Chigi”, l’una certa di conquistare l’egemonia del centrodestra su Salvini, l’altro quella del centrosinistra sui Cinque Stelle. Patatrac, causato anche dal revival gialloverde, dall’ingombrante ruolo di Berlusconi, eccetera eccetera.
Adesso, la cornice diventa l’atlantismo, declinato in forma più neo-trumpiana per l’una, più tradizionale per l’altro, dentro il quale proseguire, con altri mezzi, lo stesso schema per contendersi il governo, l’uno facendo prigioniero Conte, l’altra Salvini, che nel frattempo ha votato Mattarella al Colle, ma lo ha dimenticato, nell’ebbrezza lepenista. Mentre lei, che Mattarella non lo ha votato, sogna di riceverne l’incarico, quando sarà, “sotto l’ombrello della Nato”. E fin qui, con tutte le non poche contraddizioni, ha la parvenza di uno schema, di questi tempi meglio di una pochette neutralista o di una gaffe polacca. Quantomeno rivela le intenzioni, le legittime ambizioni e anche quanto nessuno pensi di cambiare le legge elettorale in senso proporzionale: con ogni evidenza, gli interlocutori del Pd verso cui ammiccare sarebbero tutti tranne la Meloni, anzi lo è più Salvini che ha il problema di finire sotto il suo tacco, e quella parte della Lega che non vuole morire sovranista.
Conservatori e riformisti: se fosse così, roba da “paese normale”, avrebbe un senso, anche senza evocare Fiuggi, il pericolo di una svolta mancata, né oggi né dopo, perché la patente, quando si dà, poi non si può ritirare se rischi di perdere le elezioni o in tv va il barone nero. La “destra normale”, però ha un problema di nome Orbán, cuore del ragionamento che la Meloni ha sviluppato sul Foglio, nel suo manifesto dove illustra la concezione dell’Europa degli Stati sovrani contrapposta agli Stati Uniti d’Europa, vecchio cavallo di battaglia sin dalla convention dei conservatori mondiali tre anni fa.
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