Finlandia, Svezia e il sostegno che si fa incerto

di Paolo Mieli

La premier finlandese Sanna Marin annuncia che chiederà l’ingresso del proprio Paese nella Nato. In tempi brevi. Poche settimane. Stessa cosa farà la svedese Magdalena Andersson. Due donne. Socialdemocratiche. Fino a pochi giorni fa simbolo di una rinascita della sinistra in Europa. Entrambe hanno il consenso dei rispettivi Parlamenti. Parlamenti da sempre devoti, fino a ieri, ad una sorta di religione della neutralità. Il braccio destro di Putin, Dmitry Medvedev, reagisce con minacciosa brutalità puntando l’indice contro Marin, Andersson e forse qualcun altro: «Dimenticatevi lo status denuclearizzato». Traduzione: siamo pronti ad attaccare anche voi; a portare la guerra anche in casa vostra.

C’è un’Europa — oltre a Finlandia e Svezia, repubbliche baltiche, Norvegia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia — che assiste al martirio della costa del mare d’Azov nella crescente convinzione che il terrore inflitto dai russi non si fermerà alle frontiere ucraine. Guardano con apprensione, questi Paesi, anche a quel che si produce nel centro dell’Europa. Era parso agli inizi che i Paesi dell’Europa unita tenessero a mostrarsi all’altezza della situazione. Ora che non c’era da fare i conti con soldati inviati dall’America, avrebbero mostrato di cosa erano capaci.


Approfittando dell’occasione per accelerare i tempi di costituzione degli Stati Uniti d’Europa. E per dar vita ad un piccolo ma efficiente esercito europeo. Quantomeno un embrione. Ma giorno dopo giorno l’entusiasmo dei Paesi più importanti d’Europa sembra essersi attenuato. E si ha persino la percezione che il sostegno alla causa di Zelensky non sia più quello dell’inizio. La Germania litiga con Kiev per lo sgarbo subito dal presidente Steinmeier (considerato eccessivamente filorusso per essere ricevuto in pompa magna nel Paese a cui quei suoi ex amici infliggono lutti non di poco conto); Macron, dopo una serie di infruttuose telefonate con il capo del Cremlino, si occupa delle proprie elezioni; l’Italia dà mostra di sé come il Paese più permeabile (ampiamente permeato) da forme sofisticate di cultura tolstojana; la Spagna non è pervenuta. Gli unici che si sono fatti vivi con parole adeguate sono stati la Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola (con un tempismo da statista), la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen (stavolta all’altezza del ruolo), Josep Borrell, Alto rappresentante per gli affari esteri, con parole a tal punto impegnative che gli sono state addirittura rinfacciate in molte capitali del continente.

Rinfacciate anche perché l’Europa centrale appare nel complesso rassegnata al sacrificio ucraino. Qualcuno auspica quasi apertamente che tutto avvenga in tempi brevi. Un sentimento che appare solo in parte ispirato a un senso di pietà per chi è destinato a soccombere. Molta attenzione dell’Europa che conta va legittimamente anche al prezzo del gas. Lo sdegno per quella che si configura come una serie interminabile di crimini di guerra appare in via di attenuazione. Talvolta ha un che di rituale. L’impegno a mandare armi in aiuto alla resistenza ucraina c’è ancora ma — forse anche per la diffusa considerazione del monito di papa Francesco — non sembra di assistere a una gara di velocità.

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