La sfida della giustizia, dopo le trattative l’Aula: ecco cosa cambierà
Francesco Grignetti
È stata davvero una lunga notte, a metà tra psicodramma e spettacolo di varietà, la scorsa notte nella commissione Giustizia della Camera. Una confusione pazzesca, perché bisognava chiudere la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura entro l’alba, costasse quel che costasse. Chi c’era, racconta che a un certo punto si votava per inerzia, per stanchezza, per disperazione.
Da una parte, le opposizioni all’attacco su ogni singola virgola. Dall’altra, quelli della maggioranza che si guardavano in cagnesco, timorosi di sgambetto a ogni emendamento, eppure pressati perché era imperativo chiudere e dire al mondo che ce l’avevano fatta e che martedì 19 si comincia a votare la riforma in Aula. In mezzo, i renziani. Si sono dichiarati fuori dalla maggioranza, su un tema non da poco come il futuro ordinamento della magistratura. Ma tant’è, Matteo Renzi ha dato la linea: «Riforma inutile, ma almeno non dannosa». E i suoi si sono subito allineati.
Nella commedia della notte, sono però successe cose che hanno lasciato l’amaro in bocca a molti. Il meccanismo funziona così: prima i parlamentari discutono tra loro e con il ministro, e trovano l’accordo su alcune idee; poi il governo mette nero su bianco l’articolato; quindi la maggioranza lo vota. Il passaggio si chiama «riformulazione».
Ebbene, quando ormai era troppo tardi per rimetterci mano, e appunto c’era quella fretta indiavolata di chiudere, un comma li ha fatti saltare tutti sulla sedia: i partiti avevano trovato l’accordo su un tetto di non più di 200 magistrati fuori ruolo, di equiparare gli amministrativi a quelli ordinari, e per tutti si fissava un tetto di 7 anni al massimo di incarichi fuori ruolo, cioè distaccati ad altro ufficio. Qui il governo aveva chiesto una deroga per i magistrati distaccati alla Corte costituzionale perché lì tradizionalmente si sta 9 anni, o per le corti internazionali dove in genere c’è un mandato di 10. Quando è arrivata la riformulazione, invece, la deroga era praticamente per tutti. Si afferma un tetto di 7 anni, e subito dopo si lascia correre. «La forza della corporazione dei capi di gabinetto», dice a denti stretti Enrico Costa, di Azione, che su questo si è astenuto.
In complesso, però, al netto del blitz sui fuori ruolo, la riforma del Csm finalmente c’è. L’Aula quanto prima voterà un nuovo sistema elettorale per entrare nel Csm; il blocco delle porte girevoli (assoluto per chi sia stato eletto, parziale per chi ha avuto incarichi tecnici); i meccanismi per evitare le cosiddette «nomine a pacchetto» che venivano spartite tra le correnti; la possibilità per ogni magistrato di un solo passaggio di funzione, tra giudicante e inquirente, nel corso della propria carriera; lo sviluppo di un fascicolo personale del magistrato per tenere conto dei suoi risultati.
La maggioranza ha retto, pur con i suoi mal di pancia. Dei grillini, ad esempio. «Il sistema elettorale rischia di peggiorare la situazione esistente e comunque non sembra in grado di garantire la parità di condizioni tra magistrati indipendenti e sostenuti dalle correnti, come invece avrebbe assicurato il sistema proposto dall’ex ministro Bonafede», lamenta il M5S. Si segnalano anche due voti in dissenso della Lega sulla separazione delle funzioni e della carriere. Tutto molto annunciato ma inoffensivo.
«Abbiamo evitato più volte che la riforma venisse affossata – dice ora Anna Rossomando, a nome del Pd – e siamo soddisfatti di aver contribuito a introdurre contenuti innovativi utili ad accompagnare il necessario processo di autorigenerazione della magistratura, mettendo il Parlamento al centro e dando seguito alle parole pronunciate dal presidente Mattarella nel discorso di insediamento».
Un grande impulso è venuto infatti dal Quirinale. Il resto è stato un miracolo di equilibri da parte della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che aveva la missione impossibile di trovare una sintesi tra spinte così contraddittorie. Su un principio, però, tutti si sono trovati d’accordo: lo scandalo Palamara segna un crollo di autorevolezza della magistratura, che non fa bene al Paese.
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