Ma il mondo ora non è meno globale

di Sabino Cassese

La globalizzazione ha cicli: attualmente bisogna parlare più di ri-globalizzazione che di de-globalizzazione

I l pendolo oscilla nuovamente verso lo Stato. Il grande sociologo e storico americano Charles Tilly ha scritto che gli Stati fanno le guerre e le guerre fanno gli Stati. Anche il multilateralismo è vittima della guerra in Ucraina.

Le migliaia di organizzazioni internazionali, nonostante i grandi proclami di pace, non sono riuscite ad assicurarla. Il Segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (il cui costo complessivo annuo è stimato intorno a 50 miliardi di dollari) ha scritto sul «Corriere della Sera» del 10 febbraio che «la governance globale sta fallendo nel momento in cui il mondo dovrebbe essere unito per risolvere i problemi globali».

Si riaffacciano tendenze autoritarie e reazioni nazionalistiche, mentre si registra un declino della democrazia, della libertà e dei valori propri dell’Occidente. La rete dei poteri sovranazionali costruita dopo la Seconda guerra mondiale non riesce a tenere sotto controllo gli Stati.

Sul lato dell’economia, si lamenta la fine di tre decadi di globalizzazione. Prima la pandemia, poi la guerra, costringono a modificare le catene di approvvigionamento (le «supply chains»).

La produzione ridiventa nazionale, si ricerca l’autosufficienza, ricompare il protezionismo, le imprese cercano di rilocalizzarsi, riportando a casa quelle attività che erano state delocalizzate in Paesi asiatici o dell’Est Europa («reshoring»). A questo controesodo fa riscontro il nazionalismo economico. È stata una grande illusione che l’interdipendenza economica avrebbe allontanato i conflitti bellici.

Queste conclusioni sono solo parzialmente vere e molte sono frutto di un difetto di ottica.

Innanzitutto, la globalizzazione è un fenomeno molto più complesso: non riguarda soltanto la costituzione di ordini giuridici globali e l’apertura internazionale delle economie. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas l’ha così sintetizzato, nel 2006: «Per globalizzazione si intendono i processi cumulativi di espansione mondiale del commercio e della produzione, dei mercati delle merci e finanziari, della moda, dei media e dei programmi per computer, delle reti di notizie e di comunicazione, dei sistemi di trasporto e dei flussi migratori, dei rischi generati da tecnologie usate su larga scala, da danni ambientali ed epidemie, nonché da criminalità organizzata e terrorismo».

La globalizzazione ha registrato, negli ultimi trent’anni, grandi successi, a cui nessuno vuole rinunciare. Due in particolare: ha ridotto le diseguaglianze tra le varie parti del mondo e allungato la durata della vita nei Paesi in via di sviluppo.

Inoltre la globalizzazione, come osservano gli storici, ha cicli. Sta ora cambiando: come ha osservato Sergio Fabbrini, bisogna parlare di ri-globalizzazione, più che di de-globalizzazione. La pandemia ha creato una «comunanza globale» mai vista prima, così come l’approvvigionamento di vaccini è stato oggetto di accordi sovranazionali, che però hanno creato nuove fratture, a danno dalla parte più povera del mondo.

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