Ma il mondo ora non è meno globale

In terzo luogo, le crisi sono fattori di sviluppo delle solidarietà sovranazionali, come aveva osservato nel 1974 l’allora ministro tedesco delle Finanze Helmut Schmidt, dicendo che «l’Europa vive di crisi». Infatti, la crisi finanziaria del primo decennio del nostro secolo ha portato a un rafforzamento del G20; quella del debito all’Unione bancaria europea; quella prodotta dalla pandemia a un rafforzamento della capacità di spesa dell’Unione europea; l’aggressione della Russia all’Ucraina sta rafforzando l’Unione europea e producendo alleanze inedite: gli Stati sembrano fare a gara nella solidarietà verso gli aggrediti.

A dispetto delle previsioni, nonostante pandemia e guerra nel teatro europeo, la quota delle esportazioni sulla produzione nazionale cresce, gli investimenti esteri diretti non finanziari aumentano, le imprese continuano a finanziarsi sui mercati internazionali dei capitali e le migrazioni non sono terminate.

Dunque, quelli che negli anni 40 e negli anni 50 del secolo scorso sognavano un mondo meno dominato dal nazionalismo e più cosmopolitico non si sono illusi. Mi riferisco, ad esempio, ad un autorevole collaboratore del «Corriere della Sera», il germanista e romanziere Giuseppe Antonio Borgese, di cui ricorre quest’anno il settantesimo anniversario della morte e il centoquarantesimo della nascita. Borgese fu autore di un libro, pubblicato nel 1953, un anno dopo la sua morte, intitolato «Fondazioni di una Repubblica mondiale», diretto ad illustrare quel «Disegno preliminare di una costituzione mondiale» a cui lui ed altri grandi intellettuali avevano lavorato.

Il quadro non sarebbe completo se non ricordassi che le due ultime crisi, prodotte dalla pandemia e dalla guerra nel teatro europeo, hanno messo in luce anche la pochezza di alcune dirigenze nazionali e la debolezza di molte istituzioni, a partire dall’Organizzazione delle Nazioni unite e dal suo organo centrale, il Consiglio di sicurezza, per il quale un autorevole economista, Jeffrey Sacks, ha proposto una radicale riforma.

Il presidente della Federazione russa, nel 2015, proprio all’Assemblea delle Nazioni unite, nei giorni in cui si festeggiavano i suoi settant’anni, fece un discorso contro «l’esportazione di rivoluzioni democratiche». Se c’è una cosa che deve preoccuparci per il futuro, è proprio la frattura che divide i Paesi democratici da quelli non democratici. Un vicino democratico è più probabilmente pacifico di quanto lo sia un vicino non democratico. Viceversa, alle autocrazie non fa piacere avere vicini democratici. Il problema oggi non è quanti Paesi sono democratici, ma quanta parte della popolazione mondiale vive in Stati non democratici: la decisione dell’Assemblea delle Nazioni unite che ha condannato l’aggressione russa è stata approvata con 141 voti a favore su 193, 5 contrari e 35 astenuti, ma gli Stati contrari e astenuti comprendono più della metà degli abitanti del mondo.

CORRIERE.IT

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