Russiagate, la rivelazione di Barr su Conte: “Chiesi a Trump: parlane con il premier italiano”
JACOPO IACOBONI
Il 23 ottobre 2019 l’allora premier Giuseppe Conte, dopo esser stato audito al Copasir sullo scandalo del cosiddetto “Russiagate”, si presentò in conferenza stampa e, riassumendo ciò che aveva detto al Comitato, disse tre cose. Uno: che il 15 agosto 2019 il ministro della giustizia di Trump, Wiliam Barr si era visto con il capo del Dis, Gennaro Vecchione, solo nella sede istituzionale di piazza Dante. Due: «Mi risulta che William Barr fosse qui in Italia per motivi personali». Tre: «Il presidente Trump non mi ha mai parlato di questa inchiesta». A quale inchiesta si riferiva Conte?
L’inchiesta, che spesso viene giornalisticamente chiamata “Russiagate”, era il tentativo, da parte dell’amministrazione Trump, di abbattere (con una contro-indagine) l’inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull’interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016. Per questo motivo vennero mandati in Italia, a più riprese nell’estate 2019, Barr, il procuratore speciale John Duhram e (attenzione) ispettori del Dipartimento di giustizia (non dell’Fbi). Il loro compito era trovare sostegno a questa teoria: che l’Fbi di James Comey aveva iniziato a indagare su Trump sulla base di un complotto internazionale dei democratici (di Obama), partito dall’Italia (di Renzi). Al centro c’era un professore maltese della Link University, Joseph Misfud, che proprio a Roma diede per primo a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, l’informazione che esistevano mail hackerate di Hilllary Clinton, materiale «compromettente», quindi utile alla campagna Trump. Papadopoulos lo riferì a un diplomatico australiano. Il quale lo riferì al Fbi. E nacque l’inchiesta (che, per inciso, non approdò assolutamente a nulla). Per l’Fbi, Mifsud era «un agente russo» (per Mueller, un asset dei russi): tesi provata da tante evidenze, anche forensi (tra cui i contatti di Mifsud con computer di russi della Difesa e del GRU). Si trattava di scoprire quanto fosse anche in contatto con la campagna Trump. Trump e Barr, invece, volevano sostenere che Mifsud era un agente al servizio dei democratici occidentali, in particolare una spia britannica. Per questo Barr fu inviato in Gran Bretagna, in Italia, e in Australia. Estate impegnata.
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La prima delle tre affermazioni di Conte in quella conferenza stampa è stata smentita dalla rivelazione di una cena (quindi non solo l’incontro in piazza Dante) avvenuta in un ristorante romano tra Barr e Vecchione. La seconda e la terza vengono adesso messe in crisi dall’uscita del libro di memorie di William Barr, “One Damn Thing After Another: Memoirs of an Attorney General”, un piccolo tesoro di informazioni. Su tante altre si dovrà tornare in seguito, ma qui fermiamoci su due: intanto, Barr dice esplicitamente che non era affatto in Italia per motivi personali, ma in missione. E, soprattutto, l’Attorney general racconta di aver esplicitamente chiesto a Trump, e di averlo stressato su questo, di parlare dell’inchiesta con i premier di Italia, Regno Unito, Australia. Barr conferma (come detto da Conte) che la pratica fu aperta parlando con l’ambasciatore italiano e con “senior officials” italiani, ma aggiunge che anche Trump fu coinvolto eccome: «Ho viaggiato sia in Italia che nel Regno Unito per spiegare l’indagine di Durham e chiedere assistenza o informazioni che potessero fornire. Ho avvisato il Presidente che avremmo preso questi contatti e gli ho chiesto di menzionare l’indagine di Durham ai primi ministri dei tre paesi, sottolineando l’importanza del loro aiuto». Barr chiede esplicitamente a Trump di sponsorizzare l’indagine di Durham con Conte.
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