Se in Occidente torna l’incubo dei cosacchi
Strano destino quello dei cosacchi, per cui qualsiasi ordine è un obbligo insopportabile e la legittima difesa un concetto molto esteso, fatti scaltri sotto la schiavitù zarista, mai domati, caparbi. Li hanno utilizzati come prova del nove di tutto e del contrario di tutto, aguzzini dello zar e comunisti selvatici e invasore, romantiche baldorie nella steppa con balalaiche, fanciulle dagli scuri capelli eccetera e carestie implacabili (a Stalin erano antipatici quasi come kulaki e vecchi bolscevichi). Adesso ci mancavano anche loro nel garbuglio ucraino. La loro storia ambigua, tortuosa, di tortuose e ambigue reversibilità, ricatti e riscatti, offre citazioni a tutti: agli ucraini la familiare devozione di simboli della resistenza, di eterni ribelli alla oppressione zarista giù dritti fino a Putin: avanti! è di nuovo il momento di sconciare il vecchio orso. E ai russi che hanno incorporato, anche loro, reggimenti di volontari cosacchi di ferocia guerriera.
È l’oscillazione eterna della fama di questi redditieri di miti. Mentre Parigi tremava per il loro arrivo, Londra li aveva scelti come eroi preferiti della lotta contro Napoleone, l’invasore di tutto, cleptocrate di regni e imperi, che disegnavano in anticipo come una specie di Putin post rivoluzionario. Per questa avanguardia della resistenza versarono somme cospicue con lo stesso entusiasmo con cui oggi rimpinzano gli eroici cosacchi ucraini di armi. Alla fine un contingente cosacco, mentre Napoleone meditava a Sant’Elena sui suoi errori, sfilò a Hyde Park tra l’adulazione sfrenata dei londinesi.
I cosacchi hanno continuato a far paura a mezza Europa per tutto l’Ottocento, il secolo delle rivoluzioni nazionali, delle carbonerie e delle sette. Erano il braccio armato della globalizzazione reazionaria sempre pronti a galoppare di qua e di là in nome della Santa Alleanza. Il loro zelo assicurava invece l’altra metà, quella del trono e dell’altare.
Il Novecento, secolo dei massacri, debutta appunto con una carica cosacca. Trotticchiano il 9 gennaio 1905 nella neve dei Giardini d’inverno a San Pietroburgo, gli zoccoli scivolano sulle pozze ghiacciate. Gli operai sono in sciopero per la fame, un pope dalla biografia incerta, rivoluzionario o provocatore? Chissà, li guida con una grande croce a portare una supplica al Piccolo Padre, lo zar. I cosacchi tirano fuori le nagaike e poi le spade e massacrano i dimostranti lungo la Prospettiva Nevsky. La Domenica di sangue dà inizio alla lunga Rivoluzione.
Invece in Ucraina i nemici del popolo a cavallo si capovolgono in Simon Petijura, eroe della fragile parentesi della repubblica, titano sfortunato della lotta contro Bianchi e Rossi, nemici gli uni e gli altri perché russi. Anche se abbruciacchiato dalla rossa vampa, in Italia il cosacco feroce viene a puntino ancora nel 1948 per spaventare nel segreto dell’urna e guadagnarsi qualche decimo delle masse. «Attenti a come votate, i cavalli dei cosacchi potrebbero abbeverarsi se vincono i comunisti nella fontana di Trevi!»: gemono gli avvisi insieme a madonne pellegrine e Stalin- belzebù dai manifesti elettorali della diccì e alleati. Eppure i cosacchi erano già venuti in Italia con armi e cavalli, ma le divise erano quelle tedesche. Arruolati in Ucraina per ravvivare i loro talenti contro i russi avevano anche loro galoppato in ritirata fino alla Slovenia e al Friuli, riadattati alla caccia ai partigiani titini. Gli inglesi immemori delle antiche blandizie ad Hyde Park li consegnarono a Stalin. Adesso mandano loro armi perché fermino Putin.
LA STAMPA
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