I simboli della guerra

Augusto Minzolini

La guerra è anche simboli, narrazioni. È un palcoscenico tragico. Immaginate quei duemila uomini rinchiusi nelle acciaierie Azovstal a Mariupol. Loro malgrado sono diventati l’immagine del bene e del male, della vittoria e della sconfitta. Sul piano militare, rintanati nei cunicoli sotterranei di quel vecchio complesso industriale, contano poco per non dire nulla. Dal punto di vista iconografico, invece, rappresentano molto. Al punto che Putin ha sospeso finora l’ultimo assalto con cui i tagliagole ceceni avrebbero dovuto chiudere la partita, perché sa bene che i martiri pesano più da morti che da vivi. Zelensky ha esortato più volte i sopravvissuti a resistere, dato che sui loro corpi vuole costruire l’epica della Fort Alamo ucraina. E, addirittura, Biden, al di là dell’Atlantico, ancora ieri pomeriggio stentava a credere che possano mai arrendersi: «Non ci sono prove».

Ecco perché quel posto insignificante sul piano militare ha un grande valore emblematico. Al punto di essere al centro dell’attenzione di tutti i protagonisti della tragedia ucraina da Putin, a Zelensky a Biden. C’è chi vuole esaltare quell’episodio e chi lo vuole spogliare di ogni sentimento, di ogni ideale. L’epilogo che più converrebbe a Putin sarebbe la resa nello scenario della parata della vittoria contro il nazismo del 9 maggio sulle macerie di Mariupol. A Zelensky la resistenza ad oltranza. Quello che, invece, lo Zar vorrebbe evitare è il massacro rappresentato in tutte le tv del globo, mentre al presidente ucraino dispiacerebbe vedere sui telegiornali le immagini di quegli uomini uscire dall’ingresso dell’acciaierie con le mani alzate.

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