I simboli della guerra

Calcoli, teorie, speculazioni. Al punto che si insinua un dubbio, o, comunque, un sospetto: che del destino di quegli uomini in carne e ossa non importi granché a nessuno. E in fondo la risposta è una sola: epica, coraggiosa, maledetta, sbagliata o di popolo, anche questa è pur sempre una sporca guerra.

Tanto parlare di una vicenda che sul piano strategico ormai significa nulla è quasi assurdo. Ma, appunto, la guerra non si combatte solo con i carri armati, con l’artiglieria pesante, i droni e i bombardieri. I simboli possono fare ancor più male. E i primi a saperlo non sono i generali ma i politici. Su episodi drammatici si sono forgiate le identità nazionali. I trecento delle Termopili diedero vita all’idea di una Grecia unita. Fort Alamo diede i natali all’epopea americana. I difensori delle acciaierie Azovstal, asserragliati in quell’esempio di architettura industriale sovietica, possono battezzare la nuova Ucraina, quella nazione che poco più di un mese fa lo Zar considerava un pezzo di Russia o, al massimo, per usare l’espressione di Metternich sull’Italia, un’espressione geografica. Solo che se ci sono uomini pronti a morire per un Paese, l’equazione di Putin non vale più, non sta più in piedi.

IL GIORNALE

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