Nell’inferno Azovstal l’assalto dei ceceni agli ultimi difensori
di Luca Steinmann
MARIUPOL – Questa è l’Azovstal. Cumuli di macerie, palazzi distrutti, fischi di missili ed esplosioni. Da una parte le bandiere cecene. Dall’altra le ciminiere dell’acciaieria dalle quali si alzano enormi nubi di fumo nero causato dai colpi di artiglieria. Lì sotto c’è l’ultimo manipolo di mille soldati ucraini. “Nazisti – afferma il comandante ceceno che ci accompagna in questo inferno – siamo venuti qui per cacciarli”. Questo è il cuore della guerra in Ucraina. Questa è la battaglia della resa dei conti. Qui si decide la storia del conflitto. Da una parte i russi e le armate a loro leali. Dall’altra gli ucraini aiutati dall’Occidente. Fantasmi invisibili, asserragliati nei palazzoni e nei cunicoli di questa enorme industria ma ancora in grado di sparare. Qui si combatte ancora. Più forte che mai. È tutto grigio, grigi i muri dei capannoni sventrati e grigio il cielo sopra questa battaglia. Odore di polvere da sparo avvolge chi entra nella Azovstal. Per arrivare fino a qui ci sono volute diverse ore di macchina tra palazzi distrutti o bruciati, carcasse di mezzi militari ai lati delle strade e schivando i cadaveri dei soldati abbandonati sul terreno. Questo è quanto si vede entrando a Mariupol dal suo ingresso orientale ed avvicinandosi all’Azovstal, il grande centro di produzione metallurgica diventato l’ultimo avamposto dell’esercito ucraino assediato dai russi, dai ceceni e dalle milizie filorusse dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk. Per i soldati di Kiev a queste latitudini la guerra si sta mettendo male. Da settimane la città è ormai completamente circondata e gli ucraini si sono progressivamente ritirati per asserragliarsi nell’acciaieria, che fino a ieri rivendicavano di controllare in maniera completa. Oggi non possono più farlo. Due giorni fa i ceceni hanno lanciato un attacco per sfondare le linee nemiche e nella notte sono riusciti a impossessarsi di una ampia area dell’acciaieria. Appena arrivati hanno piantato le loro bandiere, rosse e verdi con al centro il volto di Ramzan Kadyrov, loro leader. Il messaggio è chiaro: questa zona è nostra. Tutt’intorno la guerra continua e non sembra poter finire a breve.
MARIUPOL – Questa è l’Azovstal. Cumuli di macerie, palazzi distrutti, fischi di missili ed esplosioni. Da una parte le bandiere cecene. Dall’altra le ciminiere dell’acciaieria dalle quali si alzano enormi nubi di fumo nero causato dai colpi di artiglieria. Lì sotto c’è l’ultimo manipolo di mille soldati ucraini. “Nazisti – afferma il comandante ceceno che ci accompagna in questo inferno – siamo venuti qui per cacciarli”. Questo è il cuore della guerra in Ucraina. Questa è la battaglia della resa dei conti. Qui si decide la storia del conflitto. Da una parte i russi e le armate a loro leali. Dall’altra gli ucraini aiutati dall’Occidente. Fantasmi invisibili, asserragliati nei palazzoni e nei cunicoli di questa enorme industria ma ancora in grado di sparare. Qui si combatte ancora. Più forte che mai. È tutto grigio, grigi i muri dei capannoni sventrati e grigio il cielo sopra questa battaglia. Odore di polvere da sparo avvolge chi entra nella Azovstal.
Per arrivare fino a qui ci sono volute diverse ore di macchina tra palazzi distrutti o bruciati, carcasse di mezzi militari ai lati delle strade e schivando i cadaveri dei soldati abbandonati sul terreno. Questo è quanto si vede entrando a Mariupol dal suo ingresso orientale ed avvicinandosi all’Azovstal, il grande centro di produzione metallurgica diventato l’ultimo avamposto dell’esercito ucraino assediato dai russi, dai ceceni e dalle milizie filorusse dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk. Per i soldati di Kiev a queste latitudini la guerra si sta mettendo male. Da settimane la città è ormai completamente circondata e gli ucraini si sono progressivamente ritirati per asserragliarsi nell’acciaieria, che fino a ieri rivendicavano di controllare in maniera completa. Oggi non possono più farlo. Due giorni fa i ceceni hanno lanciato un attacco per sfondare le linee nemiche e nella notte sono riusciti a impossessarsi di una ampia area dell’acciaieria. Appena arrivati hanno piantato le loro bandiere, rosse e verdi con al centro il volto di Ramzan Kadyrov, loro leader. Il messaggio è chiaro: questa zona è nostra. Tutt’intorno la guerra continua e non sembra poter finire a breve.
Per raggiungere l’Azovstal bisogna partite da Novazovsk, avamposto filorusso ad Est di Mariupol. Da qui, si imbocca una strada costeggiata da lunghe fila di tendoni che ospitano gli sfollati fuggiti dai bombardamenti a tappeto sul centro cittadini. Sull’altro senso di marcia viaggiano centinaia di automobili ai cui finestrini sono appesi teli bianchi. Sono i civili che fuggono da una città assediata e ormai ridotta a un cumulo di macerie. Avvicinandosi all’area urbana si passa attraverso villaggi fatti di case dai tetti a punta, che un tempo venivano utilizzate per la villeggiatura dalla classe medio alta. Oggi sono completamente deserti, distrutti. Quasi nessuna casa, grande o piccola, è stata risparmiata dalle bombe. Avanzando si nota subito come i simboli dell’ormai precedente amministrazione ucraina siano stati cancellati da chi attacca. Su molti palazzi sventolano bandiere russe. Ai lati della strada si incrociano interminabili file di carri armati parcheggiati ma con uomini a bordo, i cannoni puntati verso la città.
Appena entrati nell’area urbana di Mariupol si viene fermati a un posto di blocco. Non russo, bensì ceceno. Decine di uomini in divisa militare, kalashnikov tra le mani e caricatori appesi ai giubbetti antiproiettili controllano il territorio. La loro base è una villetta al lato della strada, che hanno fatto propria. Alcuni sono piuttosto giovani, altri sono veterani che hanno già combattuto nelle guerre in Cecenia nei decenni scorsi Ad accomunarli sono le lunghe barbe incolte, rasate soltanto all’altezza dei baffi. “Ahmad Sila Allahu Akbar” è il motto con cui si viene salutati. Spiegano che da oggi è possibile entrare nell’Azovstal, ma solo con loro e viaggiando sui loro mezzi militari. Invitano chi vuole proseguire a salire su una jeep crivellata dai proiettili. “Se ve lo diremo potrete proseguire”. Tutt’intorno si sente il rumore delle esplosioni provenienti dall’acciaieria. L’attesa dura ore. Poi, di colpo, sbuca dalla base un giovane uomo con la barba lunga e un copricapo islamico in testa: fa il segno di proseguire.
Della parte orientale della città non resta più nulla. Le bombe non hanno risparmiato nessun palazzo, né le villette né i palazzoni in calcestruzzo in stile sovietico. Sono crollati o fortemente danneggiati, del tutto anneriti. Sulla strada si trovano carcasse di ogni tipo: di mezzi militari, di auto civili, di ristoranti demoliti, di parchi giochi distrutti. Soprattutto non si vede un’anima. Nessun passante, nessun civile. Si incontrano solo miliziani filorussi dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk che lungo la strada stazionano in check point tra le macerie sui quali spesso sventola l’immancabile bandiera russa.
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