L’Italia liberata, la guerra russa e la resistenza dei popoli in armi
Meglio di così il Capo dello Stato non poteva dire. È questa, al fondo, la vera lezione della nostra Resistenza. Lottare contro la sopraffazione totalitaria e la violazione di ogni diritto internazionale, scongiurare altri morti e altre sofferenze di un popolo aggredito, invocare la diplomazia senza arrendersi alla prepotenza, praticare il coraggio di una de-escalation della violenza bellica: ecco la «causa comune» che ci interpella e ci deve impegnare ogni giorno. È così difficile condividere questi principi, senza partecipare al telequiz “Putin è uguale a Hitler”? È possibile battersi con coraggio per la pace, come faranno oggi i marciatori di Assisi, senza accomunare in un irricevibile giudizio di equivalenza il proiettile di chi aggredisce e quello di chi si difende? Dovrebbe esserlo, perché a dispetto di chi sostiene la logica delle “opposte propagande”, di chi dubita di fronte alle fosse comuni di Bucha o di chi non si fida dei corpi inceneriti nelle “catacombe” dell’acciaieria di Mariupol, anche in questa guerra c’è una verità. E non è quella del governo di Kiev, contrapposta a quella della nomenklatura di Mosca. È quella che ci raccontano ogni giorno i nostri inviati sul campo, raccogliendo immagini e testimonianze degli uomini, delle donne e dei bambini che vivono, soffrono o muoiono sotto il fuoco dei missili, dei cannoni e dei droni. La vogliamo gridare, almeno questa semplice verità, invece di nasconderla o dissimularla dietro ai pelosi “distinguo” degli storici da teatro e gli opinionisti da talk show? Torno a Grossman, stavolta quello di “Vita e destino”: «La verità è una. Una sola, non due. Vivere senza verità, o con qualche sua briciola, qualche suo frammento, è difficile… Perché un pezzo di verità non è più verità».
Alla fine, in un estremo sussulto di responsabilità e resipiscenza, sembra averlo capito persino il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, che dopo settimane di sofismi ideologici e benaltristi ha finalmente riconosciuto che quella ucraina è «legittima resistenza armata» e che tutto è nato dall’invasione russa, «moralmente e giuridicamente da condannare senza se e senza ma». L’avesse detto prima, ci saremmo risparmiati una miserabile caccia alle streghette rosse nostalgiche del Pcus. Ha ragione da vendere Michele Serra. Quando manifesta il forte sospetto che nella sinistra italiana si annidi una «forte dose di scemenza». Quando alla vigilia di questo 25 aprile denuncia la «caciara irrispettosa e ingombrante, gente con l’elmetto che accusa chi è senza elmetto di essere amico di Putin, tartufi vecchi e giovani che leggono questa guerra come una manovra subdola dell’imperialismo americano». Ed ha ancora più ragione quando osserva l’effetto grottesco di questo truce regolamento di conti tra anime perse e anime belle: su una guerra nazionalista e tradizionalista, combattuta in nome di una grande patria e di un dio ortodosso vendicatore e intollerante, si dovrebbe lacerare non la sinistra progressista, ma la destra sovranista.
Quella destra che non litiga sulla guerra e non nomina mai Putin, perché con Putin ha peccato in pensieri parole opere e omissioni, ma oggi si guarda bene dal fare mea culpa mea grandissima culpa. Quella destra italiana, diversa e anomala rispetto a tutte le altre destre europee perché a-fascista e a-repubblicana, che oggi si gode il 25 aprile mangiando popcorn, perché considera la Liberazione una ricorrenza “divisiva”. Non una festa della nazione, ma una festa “di parte”. Non memoria condivisa di un popolo, ma un “affare dei comunisti”. Come se (di nuovo Serra) l’antifascismo non fosse un patrimonio comune anche di tutto il Paese. Come se Don Minzoni non fosse stato un prete, Piero Gobetti un liberale, Giacomo Matteotti un socialista, Ferruccio Parri un azionista. Come se i valori che ci ha lasciato la Liberazione non innervassero quella certa idea dell’Italia in cui tutti dovremmo riconoscerci: la difesa della democrazia e la tutela della dignità umana, il rifiuto dell’intolleranza e la lotta a ogni forma di razzismo. In una parola: la nostra civiltà. Da accudire e da proteggere, e da non dare mai per scontata perché scontata non è. Lo dimostra anche il voto per le presidenziali francesi di oggi, dove la posta in gioco non è l’Eliseo ma è l’Europa. E lo dimostra la stessa guerra russa in Ucraina, dove la posta in gioco non è Zelensky ma è l’Occidente. Il Fascismo non tornerà, ma i fascismi sono eterni. Il perché non ce lo ricorda solo Umberto Eco, ma ancora una volta Grossman, per inciso ucraino di Berdyciv: «Il primo nemico del fascismo è l’uomo».
LA STAMPA
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