La vittoria di Macron, la marcia scortato dai ragazzi: “Da oggi sarà un’era nuova”

Francesca Schianchi

La Tour Eiffel brilla maestosa sullo sfondo, Emmanuel Macron arriva quando è ormai buio, una lunga passeggiata fino al palco. Una marcia trionfale, come cinque anni fa nel cortile del Louvre sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno europeo: ma stavolta, sul Champ de Mars, tra bandiere che sventolano e cori dei fan, non è più solo. Mano nella mano con la moglie Brigitte, avanza circondato da un gruppo di bambini e ragazzi. Come a voler significare che inizia una fase nuova, il messaggio che cerca di lanciare anche nel breve discorso della vittoria: una decina di minuti appena, per ringraziare e rassicurare, «non sarà la continuazione dei cinque anni trascorsi ma un’invenzione collettiva», promette un «metodo rifondato» il vecchio-nuovo presidente.

E’ rieletto con il 58,60 per cento dei voti: «So che ci sono cittadini che mi hanno votato oggi non per le mie idee ma per sbarrare la strada all’estrema destra. Voglio dire loro che questo voto m’impegna per i prossimi anni», garantisce. Ma sa di dover pensare anche a chi si è astenuto, «al loro silenzio vanno date risposte», e lui, ora che è «non più il candidato di un campo, ma il presidente di tutte e tutti», sa di doversene fare carico. Poche parole, l’invito a non fischiare Marine Le Pen, l’impegno a cercare soluzioni a «rabbia e disaccordi che hanno spinto molti connazionali a votare estrema destra», un vago accenno al progetto «umanista, ecologico e fondato sul lavoro» che vuole portare avanti, e il breve incontro con la sua folla si chiude insieme alla moglie sul palco sulle note della Marsigliese cantata dalla mezzosoprano egiziana dell’Opéra di Parigi Farrah El Dibany.

Non è il 66 per cento del primo mandato, quando, outsider della politica semisconosciuto, gli vennero consegnate sulla fiducia le chiavi dell’Eliseo. Ma anche questa volta il margine è ampio, nonostante sia la terza volta in vent’anni che un Le Pen arriva al ballottaggio e il “Fronte repubblicano” per sbarrargli la strada venga vissuto ormai da molti come una sorta di ricatto. È ampio nonostante una parte degli elettori abbia dovuto scegliere un presidente che vive come elitario e distante. “Tous sauf Macron”, tutti tranne Macron, lo slogan che girava nelle settimane scorse da destra a sinistra, gli adesivi nelle metropolitane; «non vogliamo scegliere tra peste e colera» urlavano i ragazzi nelle università in lotta e dichiarava una parte di quei 7,7 milioni di elettori che al primo turno avevano scelto il leader della sinistra Jean-Luc Mélenchon. Molti di loro, alla fine, hanno invece scelto: ma Macron dovrà ricordarsi dell’astensione record, la più alta da 53 anni a questa parte, e dei tanti voti arrivati solo per fermare Le Pen. Se ne dovrà ricordare anche in futuro.

È stato quando, al primo turno di due settimane fa, i sondaggi hanno registrato una quasi parità possibile – 51 a 49 – che Macron, fin lì praticamente assente dalla campagna elettorale, è diventato davvero il candidato. In maniche di camicia su e giù per la Francia, nella banlieu che ha plebiscitato Mélenchon come nel cuore della Francia rurale, per il 44enne mai eletto a nulla prima di essere presidente, fondatore di un movimento che dal niente ha sbaragliato le famiglie politiche tradizionali (in cinque anni non sono riuscite a rialzarsi: al primo turno le due candidate dei gaullisti e dei socialisti hanno cumulato meno del 7 per cento in due), è stato tutto un incontro, un bagno di folla, persino ieri a Touquet, nel Nord-Pas-de-Calais dove all’ora di pranzo ha votato, baci e strette di mano come se il Covid non fosse mai esistito. A tentare di spogliarsi di quell’immagine algida di presidente lontano e arrogante che, in cinque anni, gli si è pietrificata addosso.

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