Macron, la guerra in Ucraina e la vera eredità degli europopulisti
In Italia la sfida arriva con un leggero ritardo. Il 4 marzo 2018 dalle urne delle elezioni politiche esce una rivoluzione. La coalizione più votata è il centrodestra (nel quale la Lega, 17,3%, alla Camera, supera Forza Italia, 14,0%), ma il M5S è il partito più votato (32,7%). Netto calo del Pd (18,8%). Nasce il primo governo populista/sovranista, che riunisce le due forme che più terrorizzano l’Europa.
La vittoria vanifica tutti gli sforzi in atto dal 2011 (dimissioni di Berlusconi e nascita del governo europeista Monti) nel nostro paese di contrastare la vittoria del centro destra, e di emarginare la prepotente affermazione del M5S. L’Europa, da tempo inquieta per gli sviluppi politici italiani, inorridisce. Il voto appare come la prima vera breccia nel cuore del Vecchio Continente – dopo il primo scossone rappresentato dalla Brexit -, analoga a quella apertasi in America, l’8 novembre del 2016, con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca.
Il populismo tormenta la politica europea e internazionale. La tradizionale dialettica tra classi, già da tempo messa in discussione, viene rimpiazzata – o almeno questa sarebbe l’idea – dalla presunta contrapposizione tra élite e popoli. Nei risultati elettorali del 2018 c’è la sua perfetta rappresentazione: il Pd italiano e le istituzioni europee si trovano nei panni delle élite e i loro detrattori, di destra e non, nel ruolo di rappresentanti del popolo. È una evoluzione della democrazia o un suo arretramento? È una ridefinizione dei concetti di classe così decisivi nella maturazione della dialettica democratica occidentale, o ne è il ribaltamento? Insomma, chi è il popolo e chi è il suo oppressore?
L’Europa inorridisce, ma stavolta si toglie i guanti e inizia un confronto che si evolverà presto in una lotta corpo a corpo. L’Europa boccia la prima legge di bilancio italiana, che prevedeva uno sforamento del 2,4%. Il governo giallo verde abbozza ma Salvini replica a modo suo: «Noi tiriamo dritto» perché gli attuali commissari «fra sei mesi verranno licenziati da 500 milioni di elettori». E a Roma incontra Marine Le Pen: «Lavoriamo a un programma comune da anni».
I sei mesi di cui parlava Salvini erano quelli che mancavano alle elezioni europee, in maggio del 2019. Data in cui il fronte sovranista a quel punto pensava di vincere, e ora sappiamo bene come contasse sul coordinamento e il finanziamento di Putin. Dopo la sconfitta alle europee, il Metropol arriva dritto dritto sul governo, e spacca l’alleanza Lega/5S. Finisce il governo, con Conte alleato all’Europa, che si salva consegnando alla crisi Salvini, in una Catilinaria recitata direttamente nell’emiciclo del Parlamento. Come si vede, tutto si tiene.
Perché ricordare tutto questo? Per ricordare che la mano di Putin dietro il fronte anti-Europa, era molto attiva fin da allora. E che la eredità di quel periodo è stata forse interrotta ma non si è dispersa nella memoria e nel dna della politica europea, e si può ampiamente riattivare ora proprio sotto il peso della guerra scatenata dalla Russia.
Le elezioni francesi arrivano a pochi mesi da quelle della Germania, e pochi mesi da quelle dell’Italia. Tutte parte di una lunga corsa elettorale che ci porterà alle elezioni europee del 2024 – nelle circostanze, forse le più rilevanti di sempre. Si è già votato in Portogallo, in Ungheria, in Serbia, in Slovenia, e si voterà in Bosnia e Erzegovina. A novembre in Usa per il Midterm (e le previsioni per i dem di Biden non sono felici). L’Italia ha due prove – in questa primavera andranno alle urne in 970 Comuni, di cui 21 capoluoghi di provincia e quattro di Regione. Tra le città più importanti: Genova, Palermo, Verona e Catanzaro. L’Aquila, Parma, Piacenza. In nessuna città le coalizioni appaiono solide, né a destra né a sinistra. In questo senso, la situazione Italiana non è mai stata più critica di oggi.
La guerra, quella vera, peserà su tutto questo. Come? Dipende da come il conflitto sarà o meno risolto, e da quanto durerà. Ma nel frattempo già ne conosciamo il peso sociale. Bollette troppo care, problemi di approvvigionamento per materie prime, grano, mais, concime. Quattro milioni di famiglie in pesante difficoltà. Tutto consenso per i populisti. A meno che, come ci dice la Francia oggi, anzi come ci dice Macron oggi, «l’ascolto della rabbia» non divenga per i democratici lo snodo per vincere.
LA STAMPA
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