Minacciare Putin e trattare la pace
Nathalie Tocci
Il vertice straordinario convocato dal segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin nella base aerea di Ramstein, in Germania, e la missione del segretario generale dell’Onu António Guterres a Mosca, a cui seguirà una seconda tappa a Kiev, sembrano raccontare due storie contrastanti. La prima è una realtà fatta di armi e di guerra, la seconda una promessa di rinnovata diplomazia e di pace. La prima desta paura, preoccupazione e, tra alcuni, dubbi e opposizione. La seconda accende la speranza a cui né possiamo né vogliamo rinunciare. Eppure, a ben vedere, le due storie sono profondamente intrecciate, se non nel presente perlomeno nel futuro. A Ramstein, Austin, riunitosi con i ministri della Difesa di oltre 40 Paesi, inclusi quelli dell’Alleanza Atlantica, ma anche l’omologo ucraino Oleksiy Reznikov, ha dichiarato senza mezzi termini che l’Occidente mobiliterà “cielo e terra” per la difesa dell’Ucraina. Già a Kiev due giorni prima, Austin e il segretario di Stato Antony Blinken, pur fermi sul fatto che gli Stati Uniti non sono entrati né entreranno in guerra, avevano ingranato una marcia decisamente più alta, annunciando un nuovo pacchetto di aiuti militari, inclusi armamenti pesanti. Gli Stati Uniti, così come il Regno Unito e i Paesi est europei avevano già rotto gli indugi che nei primi due mesi di guerra avevano reso soprattutto Washington estremamente prudente nel sostegno militare a Kiev, evitando di inviare armi che potessero essere interpretate come non puramente difensive e, in quanto tali, essere lette dal Cremlino come una provocazione. La stella polare sia di Washington sia degli europei è quella di evitare ad ogni costo un’escalation e, dunque, una terza guerra mondiale.
Ma proprio perché la stella polare è la stessa, nel terzo mese di guerra il calcolo è cambiato. Siamo entrati in una fase molto più complessa e pericolosa. La battaglia a Donetsk e Luhansk è iniziata, fatta di artiglieria pesante e di ampi spazi piani: sarà una lenta battaglia di attrito. Al contempo, nonostante o forse proprio in rappresaglia all’affondamento dell’incrociatore Moskva e con la caduta di Mariupol prossima – ma incredibilmente ancora non avvenuta -, il mirino di Mosca si è rispostato su Odessa, con gli attacchi missilistici degli ultimi giorni. Infine, le misteriose esplosioni “false flag” in Transnistria, il territorio separatista in Moldavia in cui sono stazionate circa mille truppe russe, che sia Kiev sia Chisinau leggono come il tentativo di Mosca di trascinare la Moldavia nel vortice di guerra, e quindi di espandere la violenza oltre i confini dell’Ucraina. A fronte di tutto ciò, l’unico modo per fermare un’escalation della guerra – sia verticale in Ucraina sia orizzontale oltre i suoi confini – è quello di fermare Putin. E verrà fermato solo se questa fase della guerra non la vincerà, perché se dovesse vincerla, a seguire non ci sarà una pace, ma una terza fase ancora più violenta e pericolosa dell’aggressione. È per questo che anche Berlino, portavoce dei dubbi e dell’opposizione all’invio di armi pesanti, ha cambiato registro a Ramstein, annunciando l’invio di carri armati Gepard a Kiev. Mentre a Ramstein si parlava di armi, a Mosca Guterres tentava di parlare di pace al presidente russo Putin. L’esito a Mosca è stato pressoché nullo. Una visita di Guterres a Mosca e Kiev sarebbe stata auspicabile prima del 24 febbraio. Le Nazioni Unite avrebbero potuto fare molto di più per prevenire questa guerra. Molto probabilmente non avrebbero ottenuto granché, ma rimane un fatto che il tentativo non è stato realmente fatto. Sono state invece le diplomazie europee, in primo luogo Parigi, a tentare il tutto per tutto per scongiurare la guerra. Dal Palazzo di Vetro è arrivato un sostanziale silenzio. Ora la guerra è in corso, e Putin non mostra alcun segnale di volersi fermare. Anche la mediazione turca in questa fase appare tragicamente arenata.
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