Le arti si liberino dalla politica

di Luca Ricolfi

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la reazione del mondo occidentale non si è limitata a colpire oligarchi e interessi economici russi ma ha coinvolto anche ambiti che siamo abituati a pensare come spazi di libertà e di cooperazione. L’arte e la cultura, ad esempio, con la cancellazione più o meno totale dei russi dalle fiere del libro, dai festival del cinema, dai teatri. Lo sport, con l’esclusione dei russi da calcio, basket, ciclismo, sci, tiro a volo, automobilismo, fino alla (per me) incredibile esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle paralimpiadi. Solo un ambito, quello della cooperazione spaziale, si è finora salvato dalla furia anti-russa: chi le ha viste, non può non essersi commosso di fronte alle immagini del cosmonauta russo Denis Matveev che abbraccia l’americana Kayla Barron sulla Stazione spaziale internazionale, o alle immagini dei tre cosmonauti, due russi e uno americano, che scendono insieme dalla navicella Soyuz atterrata in Kazakistan. Lì per lì la mia anima liberale ha provato un senso di angoscia, e incredulità, di fronte alla prontezza e compattezza della reazione punitiva scatenata dai governi e dalle istituzioni internazionali contro tutto ciò che è russo. Sono abituato a pensare che le colpe degli avi non possono ricadere sui discendenti, e che le colpe dei governi non possono ricadere sui singoli cittadini.

La responsabilità è individuale, e discriminare qualcuno solo perché appartiene a una certa etnia o confessione religiosa ai miei occhi sa di razzismo. Poi però ho cominciato ad ascoltare l’altra campana, quella dei falchi che vorrebbero cancellare atleti, artisti, scrittori, musicisti russi da ogni consesso civile. Non posso dire che mi abbiano convinto, ma devo ammettere che il loro ragionamento ha una sua logica: se abbiamo deciso di sanzionare le imprese e le banche russe, non si vede perché non si debbano sanzionare anche le organizzazioni economico-politiche, spesso enormi apparati burocratici, che gestiscono lo sport e la cultura della Russia, come peraltro di ogni altro Stato. Un ragionamento rafforzato dal fatto che arte, cultura e sport sono da sempre armi di propaganda politica, e di conseguenza esclusioni e boicottaggi — specie nello sport — sono entrati a far parte della fisiologia del sistema, almeno dalla Prima guerra mondiale in poi.
Detto più crudamente: non è in quanto singoli artisti, scrittori o atleti che si viene esclusi, discriminati o sanzionati, ma in quanto ingranaggi delle rispettive industrie. Potrei obiettare che questo modo di vedere le cose omette di spiegarci perché, avendo deciso di sanzionare la Russia, preferiamo colpire i suoi innocenti atleti paralimpici (misura a impatto zero) piuttosto che rinunciare al petrolio e al gas con cui la Russia sostiene i costi dell’aggressione all’Ucraina (misura a impatto massimo). Invece preferisco prendere sul serio la tesi secondo cui scienza, arte, cultura e sport non sono innocenti, in quanto governati dall’economia e dalla politica. Perché è vero, ma è solo una faccia del problema. L’altra faccia è il modo in cui lo sono. Un conto è il fatto che, per funzionare, questi ambiti abbiano bisogno di enormi risorse finanziarie e organizzative, dunque dell’economia e della politica. Un altro è che la politica entri pesantemente nella logica con cui si svolge la competizione nei vari ambiti, distorcendo e inquinando i giochi. Penso, ad esempio, ai criteri politici che, con tutta evidenza, spesso influenzano l’assegnazione dei premi più prestigiosi. O all’invasione del politicamente corretto nella vita delle università (specie americane), con conseguenze non solo sul reclutamento, ma anche sulla pianificazione dei corsi e la valutazione dei risultati della ricerca. O ai palchi dei festival e dei premi usati per lanciare appelli e scomuniche. Per non parlare dell’abitudine, invalsa fra le celebrities, di assegnare a sé stesse un indebito vantaggio intestandosi buone cause.

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