Meloni all’esame dell’Ue
di Francesco Bei
Ci sono molte buone ragioni per seguire con interesse la conferenza programmatica di Fratelli d’Italia che si apre questo pomeriggio a Milano, la prima delle quali è la più ovvia: secondo i sondaggi, Giorgia Meloni in questo momento guida il partito che raccoglie più consensi tra gli italiani e, se la legge elettorale dovesse restare questa (oltre a molti altri se…), nel 2023 potrebbe varcare il portone di palazzo Chigi come prima premier donna d’Italia. Oltre che la prima a provenire dalla tradizione politica della destra missina.
Questa tre giorni milanese, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe servire a dimostrare che il piccolo partito nato dall’esplosione del Pdl, che sembrava avere come missione quella di rinnegare la svolta finiana di Fiuggi e il cammino verso una destra “normale”, in questi anni è cresciuto, ha subito un’evoluzione che lo porta oggi ad aspirare, sia come qualità della sua classe dirigente che come programmi, a governare in prima persona il Paese. La sfida è portata non solo, come è naturale, verso l’esterno, al centrosinistra, ma anche verso l’interno, nei confronti degli altri leader del centrodestra, non a caso nemmeno invitati alla kermesse. Lo dimostra Milano, la città scelta per questa sorta di congresso, simbolo di quel Nord industriale e produttivo che ha sempre guardato con sospetto i nipotini di Almirante, con il loro carico di statalismo e centralismo romani. Più carta di Verona che Einaudi. Meloni e i suoi sembrano voler dire: siamo maturati, metteteci alla prova. Bisogna dunque guardare con attenzione a questo appuntamento, per capire se l’Italia rischia il prossimo anno una deriva orbaniana o lepenista, che ci porterebbe verso un modello di democrazia “illiberale” alla ungherese, un vero regime change, oppure se l’eventuale vittoria della destra italiana sia da considerarsi come una fisiologica alternanza di governo.
Che in questi mesi sia accaduto qualcosa è innegabile. Meloni è presidente di un partito europeo, l’Ecr (European Conservatives and Reformists Group), dove prima della Brexit sedevano anche i Tories britannici. Non è un gruppo di paria, come quello dove stanno i leghisti insieme a personaggi poco raccomandabili, anche se la presenza dei sovranisti polacchi, degli spagnoli di Vox e dei fuoriusciti tedeschi dall’AfD lo caratterizza comunque sul versante della destra sovranista anti-federalista. Il punto è che, a differenza di Orbán e della Lega, i meloniani hanno saputo prendere le distanze in maniera chiara e forte da Putin. E hanno sostenuto senza tentennamenti la linea atlantica di contrapposizione all’invasione russa, fino ad arrivare in Italia al voto, insieme alla maggioranza, sull’invio delle armi alla resistenza ucraina. Un gesto apprezzato dal premier Draghi, che ha incontrato in diverse occasioni Meloni faccia a faccia, riconoscendole il ruolo di opposizione repubblicana.
Sostegno alla Nato, difesa dei valori dell’occidente, critica forte a Putin, rapporti sempre più distanti con Orbán (che infatti a Roma ha incontrato soltanto Salvini) sono le carte che Meloni può esibire per acquistare credibilità in vista della scalata al cielo. La leader di Fratelli d’Italia ha saputo inoltre creare un collegamento con gli ambienti repubblicani Usa, dove ha ricevuto un’accoglienza calorosa in occasione della recente partecipazione alla convention Cpac in Florida, con una tirata molto applaudita contro “l’ideologia woke” e la “cancel culture”.
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