Primo Maggio, perché aumentano i poveri in Italia? Salari e inflazione, ma non solo: ecco perché siamo il fanalino di coda nell’Ue

Luca Monticelli

Abbiamo imparato il significato di “working poor” vent’anni fa con i film di Ken Loach, venendo a conoscenza di una grande massa di lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà. Nato come fenomeno anglosassone, effetto di un mercato del lavoro molto frammentato, se ne è iniziato a parlare anche in Italia con la crisi del 2008. Ma con la pandemia, e ora con l’impennata dei prezzi innescata dalla guerra in Ucraina, la situazione ha raggiunto il livello di guardia. In Italia ci sono almeno «quattro milioni e mezzo di lavoratori che guadagnano meno di nove euro lordi l’ora», spiega il presidente dell’Inps Pasquale Tridico a La Stampa. Questo senza considerare il sommerso, che coinvolge altri «tre milioni e mezzo di persone». È l’Italia del lavoro povero, che però non riguarda più solo gli “ultimi”: precari, immigrati, irregolari, part time, addetti alla gig economy, rider, giovani del Mezzogiorno e donne.
Soffrono gli operai e le partite Iva, e adesso la crisi sta intaccando il benessere del ceto medio, le fasce impiegatizie che magari fino a qualche mese fa preferivano risparmiare, rinviando investimenti e consumi in attesa che passasse l’incertezza dovuta al Covid.
Si è creato uno scenario esplosivo l’inflazione in salita da nove mesi, che ha portato alle stelle i prezzi della benzina, delle bollette di luce e gas, e i beni alimentari, tanto che il carrello della spesa si attesta al +6%. Un mix di fattori che giorno dopo giorno erode sempre di più il potere d’acquisto. L’Istat stima l’inflazione di aprile al 6,2%, a fronte di una crescita delle retribuzioni dello 0,8% e una perdita di potere d’acquisto di cinque punti percentuali. Ciò significa che le fiammate dei prezzi bruciano tra i 75 e i 100 euro al mese di uno stipendio che si aggira tra 1.500 e 2.000 euro netti. Se si fa un calcolo cumulato con il 2021, si rischia di arrivare a dicembre con retribuzioni cresciute del 7-8% in meno rispetto all’inflazione.

Italia fanalino di coda in Ue
Eurostat utilizza il concetto di “in work poverty” per considerare gli addetti che risultano occupati per almeno sette mesi l’anno e hanno un reddito familiare equivalente inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile. In Italia, secondo questo parametro, le persone che lavorano ma vivono in povertà sono il 12,3%; in una condizione peggiore si trovano solo Grecia, Spagna, Lussemburgo e Romania. La media europea è al 9,6%, sotto la quale si collocano, ad esempio, Francia e Germania.
I salari ristagnano e non potrebbe essere altrimenti visto che ci sono ben 6,8 milioni di lavoratori (il 55% del totale) in attesa del rinnovo. «Penso che possiamo accantonare il dibattito sul rischio di spirale prezzi-salari per dedicare tutte le energie a quello sul potere d’acquisto», sottolinea l’economista Andrea Garnero. La spirale tra salari e prezzi funziona grosso modo così: il lavoratore riceve un aumento di stipendio e ha più soldi da spendere, ma a loro volta le aziende alzano i prezzi creando un circolo vizioso che di fatto tiene su l’inflazione.
Francesco Seghezzi presidente di Adapt, la Fondazione nata dall’associazione di Marco Biagi, vede tre strade per sostenere i salari: «Il governo può continuare a intervenire in modo mirato sul costo di bollette e benzina. La seconda possibilità è il taglio del cuneo, ma per avere un impatto significativo servono diversi miliardi. L’altra via percorribile è detassare gli aumenti salariali».
Non solo colpa dell’inflazione
Quali sono le ragioni dell’aumento dei poveri da lavoro nel nostro Paese? Per l’economista Michele Bavaro, che ha realizzato una ricerca promossa dal programma VisitInps Scholars, si tratta di un trend iniziato nel 1990 a causa del «cambiamento nella struttura occupazionale, con la crescita di settori con competenze basse come quello dei servizi turistici e alle famiglie». Hanno inciso «le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e spesso precari». In più, il 30% degli occupati è part-time, «un valore quasi triplicato rispetto ai primi anni Duemila».

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