Primo Maggio senza pace. Ora Draghi parli al Paese


Chi articola questi pensieri non è un pericoloso agente della Fsb travestito da giornalista. E non è neanche il professor Alessandro Orsini, in uno dei suoi deliri onanistici sui bimbi felici sotto le dittature. È il presidente della Consulta Giuliano Amato, in un’intervista al “Venerdì”. A meno che non si pretenda di inserire anche lui nella lista nera degli utili idioti del nuovo Zar di San Pietroburgo, conviene ragionare su ciò che dice. Senza per questo offrire sponde alla mattanza russa o indebolire la resistenza ucraina. La fine della pace è ormai sancita. La fase due del conflitto russo-ucraino è una guerra permanente a bassa intensità. Il piano-monstre di aiuti militari da 33 miliardi di dollari annunciato da Biden è un vero salto di qualità. L’intendenza euro-atlantica segue, aprendo a Ramstein il primo arsenale delle democrazie. Parliamo non più solo di sistemi di difesa anti-carro e anti-aereo, ma di armi offensive importanti e imponenti. Anche l’Italia sta per varare un decreto bis sull’invio di nuove armi all’Ucraina. Ormai siamo co-belligeranti a distanza. Come ha scritto giustamente Domenico Quirico, siamo entrati in guerra anche noi, ma senza il coraggio e l’onestà di dirlo a noi stessi.
Se la realtà è questa, allora tutti i governi a partire dal nostro hanno il dovere di spiegarlo alle opinioni pubbliche e ai Parlamenti. La domanda posta da Lucio Caracciolo è cruciale: dov’è la vittoria per noi occidentali? Stiamo armando Zelensky per consentirgli di resistere nell’attesa che le nostre sanzioni convincano Putin a fermarsi, o crediamo e vogliamo che l’esercito ucraino vada fino in fondo e vinca la guerra anche per conto nostro? Vorremmo saperlo: non è accettabile che la lista delle armi che stiamo inviando ai resistenti ucraini sia secretata dal Copasir. E dovremmo discuterne: non è possibile che Draghi non spieghi la posizione italiana alle Camere, cosa che finora è accaduta tre volte, il 25 febbraio, il 1° e il 23 marzo. La doppia missione del premier, prima a Kiev e poi a Washington il 10 maggio, segnala una positiva ripresa dell’iniziativa diplomatica. Ma è necessario un colpo d’ala nell’azione e nella comunicazione politica. Non basta dire «faremo quello che deciderà l’Europa», anche perché la Ue non decide ed è tuttora divisa sull’embargo energetico. Bisogna dire cosa abbiamo fatto finora, nel rispetto o meno dell’articolo 11 della Costituzione. Bisogna sapere cosa vogliamo fare d’ora in poi, e semmai cos’altro noi proponiamo all’Europa, visto che la richiesta di fissare un tetto al prezzo del gas è stata respinta con perdite. E bisogna capire se l’Italia e l’Europa hanno ancora un po’ di filo da tessere, per provare a dare una chance alla pace. Tenendo sempre a mente le parole di Robert Schumann, citato proprio da Mattarella nel suo splendido discorso a Strasburgo: «La pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano».

LA STAMPA

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