La mappa della spartizione, così Putin riscrive la Storia
L’imperialismo spesso è un atto isterico dettato dalla impotenza di fronte all’evolversi della storia, a un senso di perenne minaccia. È un atto disperato, un tentativo di risolvere in un attimo ciò che richiede sforzi lunghi della intera società. Le velleità di rifare la storia sono l’effetto più di una psiche malata che di un talento messianico. Putin rilegge la storia russa con la prolissa teologia che considera la Stato centralizzato come valore primo e assoluto e quindi è già una forma di nazionalismo. A Mosca c’è sempre stata solo una buccia di idee europee e persino il marxismo, nato in vista di realtà e problemi europei, era apparenza. La Russia è stata riformista o marxista solo approssimativamente come erano romani i tedeschi del Sacro Romano Impero. Putin si sente a suo agio in questa eredità di cui fa parte a pieno titolo anche il nazional-bolscevismo.
Perfino Herzen, un grande nemico della autocrazia russa, era certo che solo la Russia potesse risolvere i problemi di un occidente ormai bacato e sulla via della decadenza. E suggeriva una via spiccia, l’invasione dell’Europa da parte della energica e giovane rivoluzione slava. Guarda cosa spunta dietro ai bagliori degli incendi putiniani, agli sproloqui sul dovere della santità russa di distruggere il paganesimo corrotto dell’Europa. Aveva ragione Trotzkij quando parlava del «messianesimo dell’arretratezza».
Tutto questo nei confini di una mappa colorata? Eppure la riconquista del sud dell’Ucraina e dei vecchi domini della zarina moltiplicano i rimandi, le corrispondenze. La Crimea è all’origine dell’ossessione russa per l’umiliazione, premessa di quella più recente ma non più bruciante del 1989 e della disintegrazione dell’impero sovietico. Con la sconfitta subìta in Crimea nel 1956 di fronte all’impero turco e alle potenze europee la Russia di Nicola I non perse tanto territori quanto il prestigio internazionale. Per recuperare la egemonia dovette attendere fino al 1945.
Per la prima volta una grande potenza fu obbligata al disarmo, con la distruzione della flotta del Mar Nero e delle fortezze. Si violò il principio sempre rispettato per cui nessuna grande potenza poteva essere umiliata dalla altre per non compromettere il prezioso equilibrio generale. Ma questo avvenne perché la Russia venne considerata uno stato semiasiatico con cui non erano necessari certi riguardi. Gli inglesi la paragonavano alla Cina umiliata dopo la prima guerra dell’oppio. Un precedente su cui Biden e i suoi quaranta alleati dovrebbero forse meditare.
La sconfitta scoperchiò l’arretratezza russa in particolare dell’esercito e della marina, afflitti da incompetenza e corruzione, i fallimenti della stessa autocrazia solo apparentemente onnipotente, e della economia che non poteva sostenere uno stato di guerra contro potenze più industrializzate. Fino a poco prima i nazionalisti panslavi predicavano che l’occidente era in declino e una nuova civiltà sotto la leadership russa ne avrebbe preso il posto. E invece… l’arrogante e caparbio Nicola divenne il bersaglio di sprezzo e di odio, perfino nella élite passiva e apatica, che lo definiva «un pazzo ebbro di potere assoluto e di arroganza…». Talora la bancarotta ratifica un calcolo sbagliato. Chi vuol riscrivere la storia e ridisegnare la geografia si comporta come Alice nel paese delle meraviglie, resta in continuazione sorpreso e deluso.
LA STAMPA
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