Sachs: «Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia»
Dunque lei cosa suggerisce?
“Per salvare l’Ucraina dobbiamo porre fine alla guerra, e per porre
fine alla guerra abbiamo bisogno di un compromesso in cui la Russia si
ritira e la Nato non si allarga. Non è difficile, eppure gli Stati Uniti
non accennano neanche all’idea, perché sono contrari. Gli Stati Uniti
vogliono che l’Ucraina combatta per proteggere le prerogative della
Nato. Già questo è un disastro ma, senza una soluzione ragionevole e
razionale, ci aspettano rischi molto più grandi.
L’argomento
dell’allargamento della Nato può non convincere, professore. Prima della
guerra l’Ucraina non aveva nemmeno un Membership Action Plan (una
“roadmap”) per l’adesione. E il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha
dichiarato al Cremlino, davanti a Putin, che l’Ucraina non sarebbe
entrata nella Nato “finché noi due saremo in carica” (cioè almeno fino
al 2036). Non sembra proprio una ragione sufficiente per invadere…
“Dire che l’Ucraina non entrerà sembra proprio un espediente
americano. In realtà, gli Stati Uniti si stavano già impegnando molto
per arrivare all’interoperabilità militare dell’Ucraina con la Nato, in
modo che a un certo punto l’allargamento sarebbe diventato
sostanzialmente un fatto compiuto. Come il ministro degli Esteri russo
Sergei Lavrov stesso ha detto di recente, il ministero della Difesa
dell’Ucraina brulicava già di consiglieri dell’Alleanza atlantica.
L’idea che l’allargamento non avrebbe avuto luogo è in realtà più
un’operazione di pubbliche relazioni che una verità. È la strada scelta
dagli Stati Uniti, come mostra in ogni politica di oggi. Il punto
fondamentale è che gli Stati Uniti si rifiutano di discutere la
questione. Questo è già un indizio”.
Le sanzioni devono
essere a oltranza o vanno vincolate a risultati tangibili: magari
prevedendo che alcune saltano se la Russia accetta un cessate il fuoco o
si ritira dall’Ucraina?
“Le sanzioni andrebbero revocate come parte di un accordo di pace.
La guerra in Ucraina è terribile, crudele e illegale, ma non è la prima
guerra del genere. Gli Stati Uniti sono stati anche coinvolti in
innumerevoli avventure irresponsabili: Vietnam, Laos, Cambogia,
Afghanistan, Iran (golpe e dittatura del 1953), Cile, Iraq, Siria,
Libia, Yemen. Questo solo per citarne alcune, perché ce ne sarebbero
molte altre. Eppure gli Stati Uniti non sono stati banditi in permanenza
dalla comunità delle nazioni. Neanche la Russia dovrebbe esserlo.
Invece gli Stati Uniti parlano di isolare la Russia in permanenza. Di
nuovo, è la tipica arroganza statunitense”.
Che pensa delle
sanzioni sul petrolio e il gas russi in discussione in Europa, per
paralizzare finanziariamente la macchina militare di Putin?
“L’Unione europea dovrebbe muoversi in modo molto più deciso per
favorire un accordo di pace. Un embargo totale su petrolio e gas
probabilmente getterebbe l’Europa in una recessione. Non lo consiglio.
Non cambierebbe in modo decisivo l’esito della guerra e non influirebbe
molto su un accordo di pace, ma danneggerebbe l’Europa pesantemente”.
La preoccupa che
l’inflazione possa alimentare il populismo in Occidente, dato che gli
elettori ne danno la colpa alle sanzioni e non alla guerra scatenata da
Putin?
“Sì, la guerra e le sanzioni stanno già creando difficoltà politiche
in molti Paesi e un forte aumento della fame nei Paesi più poveri, in
particolare in Africa, che dipendono molto dai cereali importati. Anche
Biden pagherà un prezzo politico al carovita alle elezioni di novembre.
Si noti che questi shock dal lato dell’offerta si stanno verificando
dopo un lungo periodo di espansione monetaria, quindi c’è ampio spazio
perché l’inflazione corra. Ci aspetta un periodo difficile sul piano
macroeconomico”.
In che misura i
fallimenti nelle riforme durante l’era di Boris Eltsin hanno aperto la
strada alla dittatura di Putin? Fu un fallimento simile a quello
descritto da John Maynard Keynes nel 1919 sulla Germania?
“Sono stato consigliere economico di Mikhail Gorbaciov nel 1991 e di
Eltsin nel 1992-3. Il mio obiettivo principale era aiutare l’Unione
Sovietica, poi la Russia come paese indipendente dopo il dicembre del
‘91, a mettere fino a una dura crisi finanziaria, in modo da garantire
la tenuta sociale e migliorare le prospettive di pace e riforma nel
lungo periodo. Non dimentichiamo che l’economia sovietica era crollata
ed entrata in una violenta spirale negativa alla fine degli anni ‘80. In
quegli anni, ho fatto spesso riferimento a “Le conseguenze economiche
della pace”, il grande libro di John Maynard Keynes del 1919. Quel testo
è stato probabilmente il più importante per la mia carriera, perché
evidenzia un punto essenziale: per porre fine a una crisi finanziaria
intensa e destabilizzante in un Paese, il resto del mondo deve
intervenire prima che la situazione sfugga di mano. Questo è stato vero
all’indomani della prima guerra mondiale: anziché imporre al popolo
tedesco il pagamento di dure riparazioni, l’Europa e gli Stati Uniti
avrebbero dovuto impegnarsi a cooperare per una ripresa di tutta
l’Europa, che avrebbe contribuito a prevenire l’ascesa del nazismo”.
Intende dire che il
modo in cui l’Occidente ha gestito la Russia nei primi anni ‘90 ha
contribuito a renderla una sorta di Repubblica di Weimar 2.0?
“Quando nel 1989 proposi un’assistenza finanziaria internazionale
per la Polonia – con un prestito d’emergenza, un fondo di
stabilizzazione valutaria e la riduzione del debito – i miei argomenti
furono accolti dalla Casa Bianca e dai Paesi europei. Quando feci le
stesse proposte per l’Unione Sovietica sotto Gorbaciov nel 1991, e della
Russia sotto Eltsin nel 1992-3, la Casa Bianca le respinse. Il problema
era geopolitico. Gli Stati Uniti consideravano la Polonia come un
alleato, mentre consideravano a torto l’Unione Sovietica e la Russia
appena diventata indipendente come un nemico. Fu un errore enorme. Se si
tratta male un altro Paese o lo si umilia, allora si crea una realtà
che si auto-avvera: quel Paese diventerà davvero un nemico. Ovviamente
nella storia non esiste un semplice determinismo, e certamente non su un
periodo lungo trent’anni. Il Trattato di Versailles del 1919, con la
sua durezza, non ha causato da solo l’ascesa di Hitler nel 1933. Hitler o
qualcuno come lui non sarebbero mai arrivati al potere non fosse stato
per la Grande Depressione del 1929 e, anche allora, senza i terribili
errori di calcolo di Hindenburg e von Papen nel gennaio 1933. Allo
stesso modo, gli errori finanziari degli Stati Uniti e dell’Europa nei
confronti di Gorbaciov e Eltsin non hanno certo dettato gli eventi
trent’anni dopo. Anche solo suggerirlo è assurdo. Ma la pesante
situazione finanziaria dell’Unione Sovietica e della Russia nei primi
anni ‘90 ha lasciato un retrogusto amaro. Ha contribuito alla caduta dei
riformatori, al dilagare della corruzione e infine all’ascesa al potere
di Putin. Ma anche in quel caso si sarebbe potuto recuperare. Putin
avrebbe comunque potuto avere un approccio di collaborazione con
l’Europa. Un grosso problema si è creato per l’arroganza degli Stati
Uniti, che hanno lanciato l’allargamento della Nato verso Est dopo aver
promesso nel 1990 che non l’avrebbero fatto. Poi anche per l’idea
assolutamente pericolosa e provocatoria di George W. Bush di promettere
che la Nato si sarebbe estesa alla Georgia e all’Ucraina. Quella
promessa, del 2008, ha drammaticamente deteriorato le relazioni
Usa-Russia. Il sostegno americano all’estromissione del presidente
filorusso dell’Ucraina Viktor Yanukovych nel 2014 e il successivo riarmo
dell’Ucraina su larga scala da parte degli Stati Uniti hanno
drammaticamente peggiorato, anche loro, le relazioni tra Russia e Stati
Uniti”.
Lei è stato consulente
del Cremlino nel 1992-93, attraverso il suo ruolo nello Harvard
Institute of International Development. Durante gli anni ‘90, il “big
bang” di liberalizzazioni del mercato prevalse sulla costruzione delle
istituzioni e degli assetti della democrazia. Fu un errore?
“Queste lamentele sono chiacchiere accademiche, non c’entrano con il
mondo reale. Il mio ruolo nel 1990-1992 era di aiutare la Polonia,
l’Estonia, la Slovenia e altri Paesi ad evitare una catastrofe
finanziaria. Questo era il mio obiettivo anche per l’Unione Sovietica e
la Russia. Consigliai misure che si dimostrarono di successo in molti
Paesi: stabilizzazione della valuta, sospensione delle scadenze del
debito, alleggerimento degli oneri del debito nel lungo periodo,
prestiti di emergenza, misure di sostegno sociale anch’esse di
emergenza. Gli Stati Uniti accettarono questi argomenti per Paesi come
la Polonia, ma li rifiutarono a favore di Gorbaciov e Eltsin. La
politica e la geopolitica, non la buona politica economica, dominavano
alla Casa Bianca. La costruzione delle istituzioni e le riforme
democratiche avrebbero richiesto anni, anzi decenni. La Russia non aveva
mai avuto una vera democrazia in un millennio di storia. La società
civile era stata distrutta da Stalin. Ma nel frattempo c’era una crisi
finanziaria pesante in corso. La gente aveva bisogno di mangiare,
vivere, sopravvivere, avere un riparo sulla testa, avere assistenza
sanitaria, mentre i poi cambiamenti di lungo periodo sarebbero stati
introdotti gradualmente. Ecco perché ho raccomandato per molti anni un
sostegno finanziario su larga scala a favore della Russia. Ed ecco
perché continuavo a citare la lezione di Keynes”.
Ma, con il senno di poi, l’approccio alle riforme avrebbe dovuto essere meno incentrato sulla “shock therapy”?
“Di nuovo, il mio ruolo era affrontare la crisi finanziaria. Sapevo
bene – dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e altrove – che molte riforme
avrebbero richiesto molto tempo. Il mio obiettivo era di prevenire
l’iperinflazione e un collasso finanziario. Non mi sono mai pronunciato a
favore di una privatizzazione rapida, per esempio. Sapevo che quelle
politiche richiedono anni, anche decenni per essere portate a termine”.
È
vero che la Polonia e
altri paesi dell’Europa centro-orientale hanno avuto molto più successo
applicando le stesse ricette della Russia. Ma la Polonia ha avuto aiuti
per la stabilizzazione valutaria dagli Stati Uniti, quindi un
rafforzamento delle istituzioni e il contributo di legislazione
dell’Unione europea, non crede?
“Certo, questo è il punto. La capacità di fare riforme dipende dal
contesto internazionale. Tutto sarebbe stato molto più difficile in
Russia rispetto all’Europa centro-orientale per innumerevoli ragioni di
storia, politica, geografia economica, costi di trasporto, esistenza
della società civile, geopolitica. La dissoluzione dell’Unione
Sovietica, come quella della Jugoslavia, ha anche complicato
drammaticamente la situazione, aggiungendo instabilità e recessione.
Eppure, per tutte queste ragioni, l’Occidente avrebbe dovuto essere
molto più pronto ad aiutare finanziariamente la Russia, invece che
dichiarare ‘vittoria’ e ignorare la durezza delle condizioni in Russia”.
Il problema fu la
“shock therapy” in quanto tale o il rifiuto della Germania di condonare
il debito estero della Russia e degli Stati Uniti di fornire aiuti come
per la Polonia? La “shock therapy” con scarso sostegno finanziario
esterno fu il mix sbagliato?
“La cosiddetta ‘shock therapy’ significava porre fine ai controlli
sui prezzi all’inizio del 1992, come la Polonia aveva fatto nel 1990. La
ragione era che con il crollo dell’economia a comando centralizzato,
con una massiccia instabilità finanziaria e i controlli sui prezzi,
tutte le transazioni avvenivano fondamentalmente sul mercato nero.
Neanche i generi alimentari arrivavano nelle città. La
deregolamentazione dei prezzi avrebbe dovuto essere combinata con un
sostegno finanziario su larga scala da parte degli Stati Uniti e
dell’Europa e con misure di politica sociale, come in Polonia. E questo è
precisamente quello che consigliai, ogni giorno. Ma gli Stati Uniti e
l’Europa non ascoltarono. Fu un fallimento dei governi occidentali
vergognoso e terribile. Se la stabilizzazione fosse stata attivamente
sostenuta dall’Occidente, avrebbe posto le basi per le successive fasi
di riforma, che a loro volta avrebbero portato ad altre riforme in un
periodo di anni e decenni”.
Andrei Shleifer, allora all’Harvard Institute of International Development con lei, era incaricato di consigliare la Russia sul big bang delle privatizzazioni. Che rapporto aveva con lei?
“Il mio ruolo per Gorbaciov e Eltsin era quello di consigliere macro-finanziario. Davo consigli su come stabilizzare un’economia instabile. Non ero consulente sulle privatizzazioni. Shleifer, sì. Per quanto mi riguarda non ho sostenuto la privatizzazione con il modello dei voucher dei primi anni ’90 (che creò i primi oligarchi, ndr) e non ho dato consigli sugli abusi come i “prestiti per azioni” (uno schema progettato nel 1995 che ha permesso agli oligarchi di finanziare la rielezione di Eltsin in cambio di grandi azioni in aziende di proprietà dello Stato a prezzi ridotti). Ho dato consigli a Gorbaciov nel 1991 e poi Eltsin nel 1992 e 1993 sulle questioni finanziarie. Dopo il primo anno di tentativi di aiutare la Russia mi ero dimesso, dicendo che non ero in grado di aiutare dato che gli Stati Uniti non erano d’accordo con ciò che consigliavo. La mia permanenza sarebbe stata di un solo anno, il 1992. Poi fu nominato un nuovo ministro delle finanze, Boris Fyodorov. Una persona meravigliosa, che morì giovane. Mi chiese di rimanere come consigliere per aiutarlo. Ho accettato, a malincuore, e sono rimasto un altro anno, per poi dimettermi alla fine del 1993. Fu un periodo breve e frustrante, perché mi frustrava profondamente la negligenza e l’incompetenza sia della Casa Bianca di Bush padre nel 1991-1992, sia della Casa Bianca di Clinton nel 1993. Quando seppi che Shleifer stava facendo investimenti personali in Russia, l’ho licenziato dallo Harvard Institute of International Development. Naturalmente, non ho avuto niente a che fare con le sue attività d’investimento o con i suoi consigli sulle privatizzazioni russe. Né ho ricevuto mai un solo copeco per il mio lavoro, né un solo dollaro. Le mie consulenze per i governi, dall’inizio 37 anni fa in Bolivia, non hanno mai previsto un compenso oltre il mio stipendio accademico. Non consiglio i governi per ottenere guadagni personali”.
CORRIERE.IT
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