Crimea, perché abbattere il ponte di Putin ora è diventato cruciale per Zelensky
dalla nostra inviata Brunella Giovara
Il colpo grosso sarebbe – o sarà – il ponte di Crimea, che è poi il ponte di Putin. Opera colossale, 19 chilometri di lunghezza, il più lungo di tutta la Russia, e anche d’Europa. Se mai gli ucraini riuscissero a danneggiarlo, interromperlo o addirittura distruggerlo, questo sarebbe lo smacco più grande per i russi, nella guerra dei ponti che si va combattendo. Come tante cose, è anche un simbolo dei vecchi rapporti tra i due Paesi, che a un certo punto decisero addirittura di mettersi insieme per costruirlo. E della potenza di Mosca, che dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e la fine dell’amicizia tra i popoli, decise di farselo da sola. Doppio, stradale e ferroviario, alto 35 metri, e bianco. Inaugurato il 15 maggio del 2018 da Putin in persona, che alla guida di un Tir rosso partì dalla penisola di Taman, che è nel territorio di Krasnodar, cioè Russia, per raggiungere rombando la penisola di Kerc, Crimea.
Alla festa che seguì, il Putin camionista dichiarò che si trattava di un risultato notevole, e sul punto non aveva torto: “Rende più forti sia la Crimea sia la leggendaria Sebastopoli. Adesso siamo tutti più vicini, ciò consentirà all’economia di svilupparsi in modo più dinamico, innalzando gli standard di vita delle persone”, che è quello che alle persone interessa di più. Ai russi invece interessa la posizione strategica: lo stretto di Kerc divide il mare di Azov dal mar Nero, è lo sbocco vitale a sud, è quello che già ora in parte controllano, con la flotta schierata proprio davanti a Odessa.
E agli ucraini interessa eccome, il ponte di Putin. Da abbattere, un giorno o l’altro. “Se avessimo avuto la capacità di farlo, lo avremmo già fatto. E se ci sarà l’occasione, lo faremo”, ha detto Olelsiy Danilov, segretario del Consiglio di difesa e sicurezza nazionale. E’ solo questione di tempo, dal loro punto di vista. E non è solo una questione di simboli, che pure sono importanti. Il governo di Kiev ha denunciato che i russi stanno portando in Crimea le scorte di grano (e anche i macchinari agricoli) rapinati nella zona di Melitopol e di Kherson. Ci passa anche altro, ad esempio i rifornimenti per le batterie di contraerea che da lì, come è successo proprio ieri, lanciano i missili Bastion su Odessa. Quindi, un pericolo concreto, per la resistenza dell’Ucraina a sud.
Nel frattempo altri ponti sono già saltati. Nel Donbass, per fermare l’avanzata dei russi, gli ucraini hanno distrutto sei ponti a nord di Sloviansk, mantenendone uno solo attivo, già minato in caso di pericolo imminente. E sono minati tutti quelli che attraversano i fiumi-estuario nel territorio che va da Mykolaiv a Odessa. Il Bug, il Berezan, il Tylihul. Qualunque cosa, pur di impedire l’invasione.
Dalla loro parte, i russi hanno da tempo concretizzato la strategia di distruggere le infrastrutture vitali del Paese da invadere, ferrovie, stazioni, depositi di carburante e di armi, fabbriche militari. I ponti, naturalmente. Lo scorso 26 aprile hanno colpito il grande ponte Zatoka, alla foce del Dniestr. Strategico perché unisce direttamente l’Ucraina alla Romania, cioè all’Europa. Doppio – stradale e ferroviario – da qui ci passavano i carichi di grano e altre merci di cui l’Ucraina è massima produttrice e numero uno dell’export, come l’olio di girasole. Fermo il porto di Odessa, e chiusi gli altri attualmente sotto il controllo russo, come Mariupol, Kherson, Berdiansk, Skadovsk, non restava che la ferrovia, per far uscire merci e far entrare i carichi di armi che vengono poi immagazzinati in attesa della distribuzione all’esercito. Il missile che ieri ha centrato la pista di atterraggio dell’aeroporto di Odessa era destinato proprio a questo: distruggere un magazzino “di armi arrivate dagli Stati Uniti e dall’Europa”, hanno dichiarato da Mosca.
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