Il «fattore Z» e la politica italiana
di Antonio Polito
Un nuovo «fattore Z» diventerà la discriminante della politica italiana, come il «fattore K» lo fu durante la Guerra Fredda? Allora una «conventio ad excludendum», implicita ma ferrea, impediva che al governo potesse mai andare il Pci, legato a Mosca e al blocco sovietico. Oggi un’analoga pregiudiziale potrebbe riguardare quelle forze che non sono disposte a schierarsi nella coalizione anti-Putin, o che addirittura aiutano più o meno apertamente l’autocrate di Mosca.
Non è un esito auspicabile per la democrazia italiana. Se le elezioni politiche del prossimo anno diventassero una riedizione del 18 aprile 1948, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra la libertà e i cosacchi a San Pietro, secondo l’immaginario anticomunista del tempo, sarebbe un salto all’indietro. In questo ha ragione Paolo Mieli, che ci ha messo sull’avviso da questo rischio di regressione. Oltretutto, senza il Piano Marshall e senza Pio XII, non è neanche detto che finirebbe allo stesso modo.
È però indubitabile che una guerra, purtroppo «calda» del sangue di migliaia di vittime innocenti, è essa stessa un salto all’indietro, che di per sé ci ripiomba nel Novecento. Lo si vede già dai veleni di un vero e proprio scontro di civiltà che già circolano nell’opinione pubblica e nell’informazione in Italia; e dal fatto che importanti forze politiche appaiono disposte a farne uso per intossicare anche la vita politica democratica.
Angelo Panebianco ha descritto con grande lucidità sul Corrierecome le piaghe degli anni Duemila, il terrorismo islamico, la crisi finanziaria, le grandi migrazioni verso l’Europa, la pandemia da Covid, e ora il ritorno della guerra, siano state vissute da una parte crescente dell’elettorato italiano come la conferma della fragilità e dell’inconcludenza dei sistemi democratici. O meglio: della «obsolescenza» del liberalismo, per usare le parole con cui Putin tre anni fa anticipò la via illiberale e imperiale che ha poi decisamente intrapreso.
Questo formarsi di un fronte che parteggia per le autocrazie contro le democrazie è un fenomeno alquanto indifferente anche alle smentite della storia. In fin dei conti, i due Stati-guida dell’autoritarismo, e cioè la Cina e la Russia, sono proprio in queste settimane alle prese con gravi insuccessi, veri e propri fallimenti della loro strategia di gestione della complessità. L’esportazione di una guerra coloniale da parte di Mosca e la dittatura sanitaria — quella sì — che tiene sotto custodia centinaia migliaia di cittadini cinesi, dovrebbero bastare a convincerci che le società aperte e democratiche hanno risorse e soluzioni, ideali e tecnologiche, superiori.
Ma discutere razionalmente di questo — come si è visto con i no vax — è davvero difficile di fronte al risentimento di una consistente fetta di pubblico che cerca, a destra o a sinistra, più una vendetta contro l’establishment che una soluzione ai problemi. Ciò vuol dire che questa opinione avrà un peso elettorale rilevante. È stato perciò notato che in entrambe le due possibili coalizioni in gara, quella di centrodestra e quella di centrosinistra, o «campo largo», o come altro si chiamerà, ci sarà in ogni caso almeno un’importante forza politica agitata da questi impulsi: nella Lega un tempo filo-Putin e ora incongruamente «pacifista», e tra i grillini, che con ipocrisia da azzegarbugli si dichiarano d’accordo a inviare armi per la difesa degli ucraini, ma non se sono in grado «di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda le città ucraine».
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