Europa, svegliati e ritrova te stessa attraverso la politica
di Gustavo Zagrebelsky
Sull’eterna questione del rapporto tra l’etica e la politica, realisti e moralisti si scambiano accuse reciproche. La politica, per i realisti, è il regno dei fatti, non dei paternoster; per i moralisti, deve essere il regno dei valori, non della nuda forza. Non saprei aggiungere nulla a una polemica infinita come è questa, fatta di distinguo, di sfumature, di tentativi di conciliazione sempre falliti. C’è, però, una questione preliminare alla disputa tra realisti e idealisti: che cosa occorre perché di politica, propriamente, possa parlarsi. È una questione che viene prima dei contenuti, cioè di ciò che vogliamo intendere per “buona” o “cattiva” politica.
Possiamo tradurre la domanda così: quando un soggetto che si autodefinisce “politico”, in realtà, non lo è? Molto semplice. Quando si lascia portare dagli eventi, come un bastoncino di legno trasportato dalla corrente e non opera per determinarli. Gli eventi, certo, condizionano la politica, ma non fino a dominarla. La politica non è il luogo in cui semplicemente “si galleggia”, si subisce la nuda forza dei fatti. Chi si fregia del titolo di “politico”, proponendosi come tale e cercando consenso mentre solo sa galleggiare, non è altro che un opportunista, forse un ipocrita, uno che, talora, sa parlare bene ma non merita d’essere creduto né, tantomeno, sostenuto. La ragione è semplice: il galleggiamento tra gli scogli riguarda solo lui, la sua sopravvivenza, la sua carriera.
In sintesi: il politico è colui che si pone dei fini (buoni o cattivi, è altro discorso), è al servizio di essi, e, weberianamente, si prepara e agisce consapevolmente, competentemente e tenacemente per cercare di realizzarli. Tutto il resto è solo strumento: proporsi nel discorso pubblico, cercare e accrescere il consenso, promuovere alleanze, disarticolare gli avversari, eccetera, è utile e necessario, ma se è solo questo, non è politica, è politicantismo. Riconosciamo i politicanti dal loro trasformismo, dalla facilità con cui cambiano posizione, cioè dal fatto che, in realtà, non ne hanno alcuna se non quella di servire se stessi dove e come conviene. Il politico degno di questo nome, invece, è una “testa dura”; è pragmatico solo quanto ai mezzi. Nella sfera politica, cambiare opinione è possibile, qualche volta giusto e necessario, sempre, però, pagando un costo: il riconoscimento dell’errore passato e la disponibilità ad ammettere la possibilità di errori presenti e futuri. Onde, la testa dura del politico deve essere anche una testa umile, capace di riconoscere i suoi limiti e, se del caso, di ritirarsi dalla politica. Potremmo ragionare finché vogliamo su queste cose che affascinano gli scienziati e i filosofi politici. Ora, però, urgono questioni di sostanza.
Quali siano i fini politici spetta, per l’appunto, alla politica determinare. Spetta cioè alla libertà e ai suoi usi, senza di che non c’è politica, ma solo soggezione: per esempio, ai centri finanziari, alle lobby militari e industriali, alle potenze soverchianti d’ogni genere. In questi casi, la politica retrocede di fronte alla esecuzione e i politici sono sostituiti dai “funzionari”, dai “tecnici”, dagli esecutori. In effetti, viviamo oggi in una “epoca esecutiva”. Non solo sui treni ad alta velocità la classe superiore è executive (e non, per esempio, legislative) ma anche in molta parte dell’apprezzamento sociale essere tecnico è molto meglio che essere politico. Questa “scala di valori” con l’esecutivo in cima non è la stessa dappertutto ed è tipica degli Stati che, difettando di libertà e quindi di politica, devono fare di necessità virtù. In un’epoca esecutiva come è quella che stiamo attraversando, si parla di etica, ma è una cosa diversa dall’etica politica. È efficienza e fedeltà nell’adempimento di compiti preassegnati.
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