L’America non teme l’Atomica
Lucia Annunziata
Come parlano i leader politici Usa quando parlano di guerra? Come valutano la posizione del loro paese? Qual è il vero pericolo di un uso del nucleare?
Provando a rispondere in sintesi, partendo da questa ultima domanda, la prima citazione è d’obbligo: «La nostra opinione è che le indicazioni dicono che non c’è un imminente potenziale uso di armi nucleari», sostiene l’intelligence Usa. Un breve sollievo dal terrore finale.
Per il resto, l’America di queste ore, ha gli occhi fissi sulla guerra Russia-Ucraina, in cui si preparano a un lungo stallo. Ma la sua mente e il cuore sono sulla Cina, considerata anche oggi il pericolo numero Uno. Cui si aggiunge un incredibile timore, ancora, per tutto quello che si muove, al riparo dal conflitto in Europa, nelle viscere del Medioriente: l’oscura Teheran, che bersaglia postazioni americane in Kurdistan e progetta vendetta contro leader politici americani per la morte del generale Soleimani; gli effetti sul terrorismo della rovinosa uscita di scena degli Stati Uniti dall’Afghanistan; e last but not least, gli effetti di fattori non direttamente militari, ma certamente trascinati dalle imprese militari – il clima, la fame, la crisi economica globale, e il galoppante divario tecnologico.
Di questo si è parlato martedì scorso, 10 Maggio, alle 10 del mattino, in una curiosa quasi coincidenza, che ha fatto da contrappunto involontario, a Mario Draghi che in quelle stesse ore incontrava alla Casa Bianca il presidente Biden. Non molto lontano dall’edificio neoclassico, nell’aula 2175 del Senato, intorno a un ampio tavolo ovale di legno, i Senatori della Commissione Forze Armate, una delle importanti Commissioni di Controllo, discutevano l’annuale rapporto sulle minacce globali agli Stati Uniti. A rispondere alle loro domande il direttore della National Intelligence Avril Haines, la prima donna a ricoprire questo incarico, e il Generale Scott Perrier, direttore della Intelligence Agency. La discussione è parte delle prerogative del Senato che è l’organo che possiede, in caso di guerra, il voto sulla decisione del Presidente (anche se da tempo questa decisione non è più stata presentata al Congresso). Secondo le regole di trasparenza la seduta è pubblica, salvo le parti in cui viene chiesta “sessione chiusa”. E molte volte nella discussione della Commissione si è fatto ricorso a questa sessione.
Il recupero della trascrizione, lavoro lungo ma non difficile, ci aiuta a dare uno sguardo sullo stato reale delle preoccupazioni e delle intenzioni americane in questo complicato momento.
L’intervento di apertura della Avril Haines è decisamente una indicazione di come l’America tenga ampio il suo sguardo sui conflitti nel mondo. La novità della relazione appare infatti nell’individuare come la più difficile minaccia quella della intersezione delle azioni fra “attori Stato” e “attori non statali”, attori cioè espressi da elementi di natura sociale e politica. Queste minacce, definite dalla Haines, «questioni transnazionali» sono «più complesse, richiedono sforzi multilaterali, significativi e sostenuti. E a tutti impongono una serie di decisioni più complicate da dipanare, e un maggiore sacrificio nel portare a un cambiamento significativo».
Decisamente un ampliamento di orizzonti dell’attenzione. È vero che di solito nelle relazioni della intelligence americana c’è sempre molta attenzione ai «rischi democratici» dovuti a malattie (anni fa, una lunga analisi sul rischio in Africa dell’impatto dell’Aids) o fattori climatici, come rischio democratico in paesi a leadership deboli. Ma che questa attenzione venga intrecciata alle crisi fra Stati in un periodo di guerra in Europa, è una indicazione interessante di come in Usa si immagina il futuro prossimo.
Partiamo dagli “attori Statali”, di cui, uno per uno, la relazione della Haines analizza lo stato dei rapporti con gli Usa.
Il conflitto in Ucraina fa ovviamente la parte del leone, ma la lista, come dice la Direttrice, «comincia con la Repubblica Popolare Cinese, che rimane una ineguagliabile priorità per la comunità dell’intelligence, e continua con Russia, Iran e Nord Corea». La priorità è dovuta al fatto che La Cina «è il Paese che più si avvicina a competere alla pari con gli Usa sulla sicurezza nazionale, spingendo per far passare normative a proprio vantaggio, sta riuscendo a sfidarci su molti terreni. Economici, militari, e tecnologici».
La Cina «è particolarmente abile a mettere insieme un approccio governativo globale per dimostrare forza, e spingere i Paesi vicini ad acconsentire alle sue scelte. Incluso quelle territoriali, e marittime. La pretesa di sovranità su Taiwan è il centro dell’iniziativa del presidente Xi, determinato a entrare a Taiwan secondo le sue regole. La Cia preferirebbe una unificazione forzata che evitasse un conflitto armato, per cui ha aumentato la pressione diplomatica, politica e militare sull’isola. La Cina è anche impegnata nel maggiore sforzo di espansione e diversificazione dell’arsenale nucleare nella sua storia. Sta inoltre lavorando a pareggiare e superare l’impegno spaziale americano, e pone la più attiva e consistente minaccia alla governo Usa e al settore privato». Sono affermazioni non nuove ma in questo caso molto decise e usate per sottolineare perché la Cia sia oggi considerata da Washington il pericolo numero Uno. Queste valutazioni confermano l’opinione di molti analisti, sul vero nemico (la Cina) che si nasconde dietro lo scontro con la Russia.
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