L’Occidente prigioniero e il trono di re dollaro

MASSIMO GIANNINI

Nel suo straordinario e visionario “Occidente prigioniero”, che Adelphi ha il merito di averci appena regalato, Milan Kundera mette l’amata Europa con le spalle al muro. Colpevole di aver regalato e relegato il suo centro geografico ad appendice politica dell’Urss, l’Europa nel frattempo non si è accorta della sua sostanziale “scomparsa”. Nel Medioevo la sua unità si fondava sul cristianesimo. Nella Modernità si basava sulla Ragione e sui Lumi. E oggi? «In quale ambito si realizzeranno valori supremi capaci di unire l’Europa? Le conquiste della tecnica? Il mercato? I media? (Il grande poeta sarà sostituito dal grande giornalista?). O la politica? Ma quale? Quella di destra o di sinistra? Esiste ancora, al di sopra di questo manicheismo tanto idiota quanto invalicabile, un ideale comune percepibile?».

Queste domande Kundera se le poneva in un lontanissimo 1983, quando il Muro scricchiolava ma resisteva. Molto è cambiato, da allora. Ma molto è rimasto uguale. Ancora oggi, come dimostra il pugno di ferro della “democratura” post-sovietica, la «civiltà del totalitarismo russo è la radicale negazione dell’Occidente quale era sorto agli albori dei tempi moderni, fondato sull’Ego che pensa e che dubita» (amara profezia, sempre di Kundera). Ancora oggi, come dimostra la dottrina putinista in Eurasia, «ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo» (oracolo fulminante dello scrittore ceco Karel Havlicek, datato 1844). Ancora oggi, l’Europa cerca una fiaccola che la riscaldi e la illumini, visto che la poesia, la musica, l’architettura, la filosofia, «hanno perso la capacità di costituirne il fondamento».

In verità, nei quasi quarant’anni trascorsi da allora, un “valore supremo” e unificante l’abbiamo trovato. È la moneta. E per fortuna che almeno lì ci siamo arrivati, con il Trattato di Maastricht del ’92. “Il mercato”, per riprendere Kundera, ha potuto più della politica e della cultura. L’euro ha forgiato un nucleo duro di Paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter fare da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare, addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche questa illusione, sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca.

C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo, dentro la sporca guerra militare tra il Golia russo e il David ucraino. È la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzare via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali, vincolando tutti i Paesi a politiche monetarie che prevedessero valori fissi nel tasso di cambio rispetto al biglietto verde. Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innescati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.

L’attacco criminale all’Ucraina ha fatto esplodere i prezzi già roventi delle risorse energetiche. Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi. L’operatività della Banca centrale di Mosca sui mercati esteri è stata fortemente limitata, attraverso il blocco delle riserve in valuta. I primi dieci istituti di credito russi, ad eccezione di Gazprombank, sono stati esclusi dal circuito internazionale dei pagamenti Swift. Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. Usa e Ue, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto (come ha riconosciuto a malincuore Mario Draghi).

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