L’Occidente prigioniero e il trono di re dollaro

Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario internazionale “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale. È già successo. Nel 2014 gli Stati Uniti inflissero una multa record da 9 miliardi a Bnp Paribas, “colpevole” di aver effettuato transazioni con Paesi sotto embargo statunitense. Tra il 2004 e il 2015 le sanzioni per embarghi violati hanno fruttato alla Casa Bianca 16,9 miliardi di dollari, prevalentemente a danno di aziende europee. Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renminbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi prima possibile dal circuito occidentale Swift.

A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese”. Tra i partecipanti, ministri russi e delle repubbliche ex-sovietiche (Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan) e accademici della Renmin University of China. L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano”. Di fatto, una nuova moneta basata su un paniere a sé stante di valute, tra cui il rublo e lo yuan, e ancorata al valore di alcune materie prime, compreso l’oro. E con questa nuova moneta, puntare all’autosufficienza valutaria, per poi estenderla gradualmente anche al continente africano. Come nota l’economista Giulio Albanese su Avvenire, secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali, da parte degli Stati Uniti, dell’Ue e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.

Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e Xi Jinping. L’attacco all’egemonia americana, attraverso il dollaro. E la creazione di un’altra Cortina di Ferro, stavolta valutaria, tra monete occidentali e monete orientali. Anche questo non è un piano spuntato fuori all’improvviso. Lo ricorda Barbara Spinelli sul Fatto: già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la de-dollarizzazione del sistema monetario internazionale, e cioè una diversa unità di conto che riflettesse l’interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Nel marzo del 2009 ne parlò l’allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. Nel maggio 2019 ne accennò l’attuale governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definendo il dollaro “uno strumento inaffidabile”. L’invasione della Rus’ di Kiev, adesso, offre alle autocrazie l’occasione per rilanciare anche la sfida. Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone d’interesse. Quanto di peggio si possa immaginare.

In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultime settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro. Vincent Mortier – ceo di Amundi, colosso del risparmio gestito da 2 mila miliardi l’anno – dice al Financial Times che entro sei mesi si arriverà alla piena parità: un euro, un dollaro. Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche. Una grana enorme. Per la Bce, che deve pilotare il rialzo dei tassi di interesse. E per i governi, che devono gestire debiti pubblici elefantiaci. Torniamo così all’Occidente prigioniero di Kundera. Chiamato, quasi mezzo secolo dopo, a opporsi nuovamente «alla forza schiacciante del suo grande vicino, e insieme anche alla forza immateriale del Tempo».

LA STAMPA

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