La guerra al punto di partenza, i russi seguono il copione di sempre: conquistare dopo aver distrutto

testo di Francesca Mannocchi – foto di Alessio Romenzi

La guerra in Ucraina che sta entrando nel suo terzo mese ha cambiato natura.

Prima del 24 febbraio gli osservatori e analisti militari ritenevano che la schiacciante superiorità numerica vantata dall’esercito russo rendesse la vittoria una mera questione di tempo, in pochi si chiedevano se la Russia avrebbe vinto, la domanda era piuttosto quanto velocemente l’avrebbe fatto.

ALESSIO ROMENZI 

Quello che gli analisti non prendevano in considerazione, come sottolinea Liam Collins, direttore del Modern War Institute, l’accademia militare degli Stati Uniti a West Point era che «le prestazioni in tempo di guerra sono influenzate da qualcosa di più del funzionamento delle armi. Il successo in battaglia è anche una funzione della strategia, dell’impiego operativo, della dottrina, dell’addestramento, della leadership, della cultura e della volontà di combattere». Tutti fattori che l’Ucraina ha dimostrato di poter vantare e che alla Russia fanno difetto. L’addestramento, la motivazione e la leadership – oltre al compatto supporto operativo dell’Occidente – spiegano la liberazione di Kiev, un mese fa, e quella di Kharkiv anch’essa libera da pochi giorni, e spiega anche perché l’esercito russo non sia ancora riuscito a impossessarsi di quello che è diventato lo scopo centrale dell’offensiva: la conquista dell’intera regione che fa capo alle province di Donetsk e Lugansk, in Donbass.

ALESSIO ROMENZI 

In Donbass, a contrastare l’avanzata russa, agiscono le truppe della Joint Forces Operation (JFO), alcuni dei soldati più preparati e meglio addestrati dell’esercito ucraino, che hanno acquisito esperienza negli ultimi otto anni di guerra.

L’errore di valutazione del presidente russo Putin non sono da addebitarsi solo a una malintesa sovrapposizione tra russofonia e consenso, ma anche alla sottovalutazione dei progressi raggiunti dall’esercito di Kiev che, dopo la guerra iniziata nel 2014 in Donbass, è stato completamente trasformato e revisionato, nella temuta attesa che quel conflitto rimasto confinato sulla linea di contatto si sarebbe prima o poi trasformato in un’operazione su larga scala.

Così, a partire dal 2016, quando l’ex presidente Petro Poroshenko ha emanato il Bollettino di difesa strategica, i vertici della difesa e l’esercito sono stati riformati con l’ausilio dell’Occidente. Gli uomini che oggi combattono in Donbass non sono gli stessi del 2014, hanno una visione strategica oltre alle armi. I russi, invece, continuano a mettere in atto lo stesso copione, lo dimostrano i dati sul campo di battaglia a partire dal 18 aprile, inizio della seconda fase dell’offensiva. Fallita l’operazione a Kiev, e allora già in difficoltà a Kharkiv, i russi hanno spostato l’obiettivo sul Donbass agendo come da copione: gli obiettivi che restano per giorni sotto attacco aereo e sotto il fuoco dell’artiglieria e i soldati che avanzano dichiarando la “liberazione” dei villaggi. Hanno fatto così con Kreminna, hanno fatto lo stesso con Popasnia.

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Pesanti bombardamenti che radono al suolo obiettivi militari e aree residenziali lasciando le strade distrutte e punteggiate da profondi crateri, strade in cui avanzano poi da carri armati, cannoni semoventi e i mezzi per il trasporto di personale che attraversano medi o piccoli centri abitati della regione mineraria del Donbass, diventati però più rovine che città.

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