Mariupol, gli irriducibili della Azovstal e il lungo assedio: ora il dilemma della resa
Durante la battaglia l’immagine dei militanti dell’Azov è mutata nella percezione della popolazione: da nazionalisti fanatici, addirittura «nazisti», a patrioti in grado di esprimere la volontà di difendere la libertà di tutti
UMAN — A questo punto gli irriducibili che per oltre due mesi hanno resistito all’assedio russo nelle acciaierie Azovstal di Mariupol sono assurti a simbolo della forza e del coraggio ucraini. Non solo nel Sud, ma in tutto il Paese, a partire dall’esercito di volontari che da febbraio a fine marzo seppero tenere testa alle brigate inviate da Putin con l’ordine preciso di catturare Kiev e rovesciare il governo Zelensky.
Non è facile essere simboli. Lo sanno bene anche loro. Infatti, tra i combattenti che sin dall’inizio accettarono di andare volontari a difendere Mariupol, che sarebbe stata la prima città presa di mira dai russi in avanzata dal Donbass verso la Crimea, ci sono il meglio delle unità dei Marines, assieme alla Guardia Nazionale e soprattutto i volontari del battaglione Azov. Gente motivata, bene armata, addestrata, disposta a combattere con ogni mezzo e a morire, se necessario.
Parlando con gli sfollati e i sopravvissuti alla tragedia di Mariupol arrivati a Zaporizhzhia sin dal 3 maggio, quando l’Onu riuscì a negoziare con i russi l’evacuazione dei civili intrappolati nell’acciaieria, abbiamo raccolto parole di grande rispetto per loro. «Erano come degli angeli. Passavano ogni giorno tra noi civili a portare un poco di cibo e scherzare per qualche minuto con i bambini», raccontavano.
L’immagine
In quel lungo periodo di battaglia e morte anche l’immagine dei militanti dell’Azov è radicalmente mutata nella percezione della popolazione: da nazionalisti fanatici, addirittura «nazisti» coperti da tatuaggi razzisti, a patrioti in grado di esprimere la volontà di difendere la libertà di tutti. «Non ci arrenderemo mai. In ogni caso Putin non fa prigionieri. Se ci arrendessimo verremmo uccisi subito. In verità siamo già morti», comunicavano nei loro messaggi sino a qualche giorno fa. Erano diventati gli eroi dell’Ucraina invitta e decisa a non arrendersi.
«Quelli di Azov sono come dei fantasmi, i russi ne sono terrorizzati, appena ne sentono parlare sparano a casaccio, abbattono interi palazzi pur di prenderne due», diceva l’altro giorno una famiglia appena uscita. Tra le leggende fiorite per rafforzare la loro aura di invincibilità generosa, c’era quella della loro capacità di muoversi agili e veloci tra le macerie della città. «Fanno sortite notturne, si spostano come pantere, attaccano le pattuglie russe e rubano loro armi e munizioni, per questo continuano a sparare», raccontava un ragazzino, non nascondendo che «da grande» anche lui sarebbe diventato uno di loro.
Noi oggi sappiamo che la loro capacità di combattimento è stata accuratamente pensata e preparata ben prima dell’attacco russo. Sembra sia stato lo stesso Zelensky a sostenere la necessità di portare cibo e munizioni nel dedalo di sotterranei sotto l’acciaieria, circa una settimana prima della guerra. Da allora hanno avuto la capacità di risparmiare le munizioni: i russi rovesciavano cascate di fuoco, ma loro rispondevano centellinando i proiettili, a ogni colpo doveva seguire una vittima russa. I loro video, le dichiarazioni, assieme alle foto passate sui social sono diventati parte di una grande epopea, assieme alle vicende degli sposi nei sotterranei, dei loro bambini, della loro lotta con le necessità quotidiane come lavarsi e mangiare.
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