La lezione del Vietnam

Fergusson a sua volta pone una domanda vicina alla sensibilità odierna: «Guerra Fredda a parte, la guerra in Vietnam non stava andando bene. Perché non interrompere la guerra e ritirare le truppe?».

Kissinger risponde entrando nel cuore della logica di ogni negoziato – che spesso non è quella dell’accordo: «Furono impiegati (in Vietnam) 500 mila soldati senza una definizione di vittoria. L’obiettivo era infliggere più danni possibili ai vietnamiti del Nord in modo da spingerli a negoziare. Purtroppo, la loro capacità di sopportazione fu molto più alta del previsto».

Il Segretario di Stato parla indirettamente dei bombardamenti “segreti”, alcuni fatti in Cambogia, ripetutamente usati dagli Americani per “ammorbidire” la trattativa. Fergusson chiede conto: «Cosa mi dice dell’accusa che centinaia di migliaia di civili indifesi rimasero uccisi?». Kissinger svicola: «Questa è una sciocchezza».

I colloqui avanzano dunque attraverso atti di guerra:

uso di bombardamenti indiscriminati (come poi il giornalismo americano denunciò con i famosi Pentagon Papers pubblicati nel 1971), e l’uso di attacchi terroristi da parte dei Vietcong, nonché una abile, come diremmo oggi, propaganda politica internazionale. E avanzano grazie a colloqui segreti che sono fuori da quello che chiameremmo “trasparenza democratica”.

Ma la fortuna del tutto è la individuazione di una exit strategy vera, una uscita che è più grande del conflitto stesso, e lo sposta a un diverso livello: l’accordo fra Usa e Cina. Kissinger ricorda. «Il presidente Nixon e io avevamo capito che l’Unione Sovietica e la Cina erano nemici, e non alleati. Credevamo inoltre che la distribuzione del mondo fosse innaturale. La Cina era fuori dal sistema internazionale, quindi la strategia era includerla, in modo che l’Unione Sovietica avrebbe avuto altro a cui pensare. Un altro aspetto importante era che, favorendo le relazioni con la Cina, avrebbero potuto aiutarci a convincere i vietnamiti a farci delle concessioni. Nixon ebbe il coraggio di aprirsi alla Cina appoggiato da un solo consigliere, senza consultare altre nazioni. Riteneva che, se la cosa fosse diventata di pubblico dominio prima che l’annunciasse, non sarebbe mai andata in porto». Nel 1972 Nixon va in Cina. Nel 1973 viene firmato l’accordo con il Vietnam del Nord. La guerra finisce comunque come sempre le guerre: con la sconfitta di uno dei due contendenti. Nel 1975 i Vietcong prendono Saigon, e gli Americani la abbandonano con una spettacolare fuga.

Insegnamenti per l’oggi

Ci dice qualcosa tutto questo per l’oggi? Le due storie non sono comparabili certo. Ma contengono una identica lezione sulla natura intima del percorso verso un accordo: avviare una trattativa non è solo un elenco di proposte. Non è solo dire si potrebbe fare così e così.

C’è bisogno di veri mediatoti, del raggiungimento di un bilanciamento militare, e di una sorta di equilibrio fra stanchezza e calo di motivazione. Infine c’è bisogno di accordi che ognuna delle due parti possano vivere come una non completa sconfitta. Sono condizioni che nascono da rese dei conti, odi che vengono esplorati fino in fondo e paure vissute fino all’esaurimento.

Nessuna delle tante proposte oggi avanzate, inclusa quella italiana, sembrano recepire la gravitas, il dolore e il peso della strada per la pace. —

LA STAMPA

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