Un governo da salvare e la politica “Beautiful”
Non si può dire che a noi italiani manchi il senso della
Storia. L’orologio dell’Apocalisse si è appena rimesso in moto. Nel
cuore d’Europa si combatte una guerra che ha già cambiato il mondo. È
caduta Mariupol, moderna Stalingrado della resistenza ucraina. Si è
arreso il Battaglione di Azov, nell’acciaieria che Putin voleva
catacomba, e catacomba si è confermata. I massacri di Kharkiv e di
Bucha, ora certificati dalle immagini del New York Times, bussano alle
nostre coscienze, chiedono giustizia e al tempo stesso la fanno delle
troppe menzogne servite dalla propaganda del Cremlino su quella tavola
calda per antropofagi chiamata Rete. La Russia sta per chiudere con
successo la campagna del Donbass.
L’America stanzia il più gigantesco
piano di aiuti militari a Kiev mai varato finora, oltre 40 miliardi. La
tragedia umanitaria è già in atto, con milioni di profughi che cercano
riparo in Occidente. La “catastrofe alimentare”, come la chiama
l’Economist, è già in corso, col blocco dell’export di cereali e di olio
di palma di Russia e Ucraina, che insieme forniscono il 12 per cento
delle calorie del pianeta. L’India ferma nei porti le sue forniture di
grano. In Cina crollano dell’11 per cento le vendite al dettaglio e del 3
per cento la produzione industriale. Negli Stati Uniti cedono insieme i
consumi popolari della grande distribuzione (Walmart perde il 12 per
cento) e i ricchi investimenti del capitalismo finanziario (Wall Street
brucia 8 trilioni di dollari in sei mesi). Mentre ci piovono addosso
copiosi questi coriandoli di Armageddon, l’Italia manda in onda la sua
surreale soap-opera.
Alla convention forzista della Mostra d’Oltremare, dopo la sceneggiata napoletana del Cavaliere che prima si riscopre putiniano poi ritorna amerikano, la “linea” la detta Ronn Moss. Il Ridge di Beautiful che sale sul palco e parla ai resti del popolo azzurro è la perfetta allegoria di un Paese dove ogni tragedia degenera in farsa. Dove l’anziano belloccio della più famosa serie tv dei primi Anni Novanta riflette l’eterna finzione di un establishment politico che persino nei momenti più drammatici si spoglia della responsabilità e della gravitas, preferendo i panni del guitto ai vestiti dello statista.
La guerra è un tormento dell’anima. Questa, più di altre, ci devasta e ci angoscia. Abbiamo domande, abbiamo dubbi, abbiamo paure. Ma ci sono alcuni punti fermi, sui quali tutti dovremmo ormai convenire. L’offensiva criminale di Putin va fermata, tentando di aprire in tutti i modi la via del dialogo. Il negoziato va perseguito attraverso l’attivazione di tutti i canali possibili, facendo valere le ragioni del diritto internazionale e del multilateralismo. E va ribadito anche a costo di distinguere gli interessi di Europa e Stati Uniti, sia pure restando nel solco dell’imprescindibile fedeltà atlantica. Per essere chiari: un conto è se l’obiettivo dell’Occidente è arrivare a una tregua e poi un accordo sostenibile che non sia vissuto come disfatta da una parte o dall’altra, tutt’altro conto è se invece diventa il “regime change” a Mosca. In ogni caso, finora chi ha opposto un colpevole rifiuto alla trattativa è solo il presidente della Federazione russa, per il quale “non è il momento” di parlare di pace, “non è il momento” di cessare il fuoco, “non è il momento” di sedersi al tavolo. Per questo il grido di dolore degli ucraini va ascoltato e la richiesta di aiuto che rilanciano ogni giorno va raccolta. Non tocca a noi chiedergli o imporgli una resa: se esista e quale sia la vittoria lo possono stabilire solo Zelensky e il suo popolo.
Una piattaforma ragionevole e condivisibile, per una nazione che non può certo determinare i destini del pianeta, perché non ha né la forza né lo standing per farlo, ma che ha almeno coscienza di sé e del suo ruolo, in Europa e nel mondo. Mario Draghi questa piattaforma l’ha costruita e rappresentata dignitosamente, prima nella sua visita a Washington e poi nella sua informativa al Parlamento. Alla Casa Bianca e al Congresso ha ottenuto ascolto e rispetto. A Montecitorio e Palazzo Madama ha incassato vacui consensi. Una sorta di tiepida, quasi accidiosa “non-sfiducia” di buona parte di deputati e senatori. Nelle aule parlamentari, dove pure si esige giustamente una presenza più assidua del presidente del Consiglio, il dibattito è stato assai fiacco. Fuori, dove i leader vagano liberi e irresponsabili a caccia dei rispettivi elettorati perduti, il discorso della politica è quasi imbarazzante.
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