Un governo da salvare e la politica “Beautiful”

Diciamolo, con onestà e con franchezza. Questo governo è ormai poco più di un simulacro della cosiddetta “unità nazionale” sulla quale Sergio Mattarella l’aveva forgiato, il 13 febbraio del 2021. Ormai a sostenere apertamente Draghi c’è rimasto solo il Pd, da oltre dieci anni sempre “governista” per senso delle istituzioni, per necessità o per opportunismo. Per il resto, la maggioranza non esiste più. Ogni partito recita a soggetto, ogni famiglia politica fa e disfa esattamente come i Forrester e i Logan di Beautiful. Sulla guerra, la sensazione è che il copione non lo indichino la diplomazia o il terreno, ma solo i sondaggi. La prova sta proprio nella svolta russofila di Berlusconi. Il Cavaliere ha resistito un paio di mesi, soffrendo in silenzio i crimini e i misfatti dell’amico Vlady. Poi ha azzardato una critica formale, dettata più da un personale “piange il telefono” che da una convinzione politica. Ma nell’ultima settimana l’uomo di Arcore ha rotto gli indugi, sconfessando la linea di Draghi e chiedendo a Zelensky di “ascoltare le richieste russe”. E contano niente le successive, mezze retromarce. Pesano di più le tabelle di Alessandra Ghisleri, che segnalano il disagio crescente dell’opinione pubblica verso il conflitto e i suoi effetti economici. E incide il passato che non passa, che nel caso di Berlusconi e Putin incrocia la vita privata e il business: il ricordo indelebile dei vecchi bagordi tra Villa Certosa e la dacia sul Mar Nero, e l’aumento esponenziale delle forniture di gas russo concordate proprio nel 2011, poco prima della rovinosa caduta dell’ultimo governo azzurro.

La sbandata nostalgica del Cavaliere, folgorato sulla via di Mosca, si aggiunge alla soap opera che già conosciamo. Ispirata a quello che Antonio Polito sul Corriere della Sera ha definito giustamente “fattore Z”, cioè il simbolo col quale il Tiranno traveste la sua “operazione militare speciale” in Ucraina e riveste la sua narrazione autocratica in patria. Da una parte i continui strappi di Giuseppe Conte, che improvvisamente ha scoperto un Draghi privo di “mandato politico” (dimenticando di averglielo conferito lui stesso più volte con i voti d’aula) e ormai risponde più ai pifferai magici del giornalismo d’area che ai bisogni reali del Paese. Dall’altra parte i tormenti ghandiani di Matteo Salvini, che ormai legge solo Avvenire e si nutre solo dell’Angelus di Papa Francesco (beninteso, a condizione che l’uno e l’altro non parlino del dramma dei migranti che continua a consumarsi ogni giorno nelle acque del Mediterraneo intrise tuttora di sangue innocente).

E non basta la pantomima sulle armi che non dobbiamo inviare a Kiev, o che dobbiamo inviare solo se servono a difendere e non a offendere. Al colmo del grottesco serial televisivo in onda da qualche mese, mentre i Grandi Imperi tornano a fronteggiarsi sull’atlante geo-politico, mentre migliaia di civili muoiono sotto le bombe, mentre i cittadini di questo globo sciagurato si fermano attoniti davanti all’abisso nucleare, i nostri Ridge si fermano indignati davanti alla “questione balneare”. Con eroico sprezzo del ridicolo, i partiti della pseudo-maggioranza bloccano da mesi il disegno di legge sulla concorrenza solo perché qualche migliaio di concessionari di spiagge rifiutano da un decennio di contendersi a gara terreni demaniali affittati per un piatto di lenticchie e sfruttati come miniere d’oro. Gli stabilimenti, a volte, possono più dei reggimenti.

In questo penoso sommario di decomposizione, l’ultimatum del premier è il minimo sindacale per evitare il peggio. La legge sulla concorrenza è parte integrante del Pnrr che abbiamo concordato con la Commissione europea: se non rispettiamo i tempi, salta l’assegno di Bruxelles, e con quello salta anche il governo, perché Draghi questo scempio non se lo vuole intestare. Non è una ripicca: è l’interesse nazionale, come spiega oggi il commissario europeo Paolo Gentiloni. Senza i fondi del Next Generation Eu l’Italia piomberebbe in una recessione rovinosa, che costerebbe ancora più povertà e ancora meno lavoro. Conviene rischiare tanto, solo perché siamo entrati in un ciclo elettorale dal quale usciremo chissà come e chissà quando? Carlo Cottarelli scrive che in queste condizioni, con un esecutivo bloccato dai veti dei partiti, è meglio andare a elezioni anticipate. Carlo Messina, amministratore delegato della più grande banca del Paese, obietta che anche un governo Draghi frenato dalla politica è comunque molto meglio che un governo politico senza più Draghi. A occhio e croce, l’obiezione di Messina sembra sensata. Aprire una crisi adesso sarebbe una mossa degna di Tafazzi. Un atto di puro autolesionismo. Se la Politica ne ha abbastanza della Tecnica, e vuole tornare a sedersi a capotavola com’è logico e giusto in una democrazia matura, ha una formidabile opportunità: la pianti subito con Beautiful, e usi l’anno che ci separa dalla scadenza naturale della legislatura per rifondarsi, magari con una buona legge elettorale, e per rinnovare persone e programmi. In caso contrario, potrebbe persino avverarsi la profezia di Massimo Cacciari: dopo Draghi arriverà ancora Draghi.

LA STAMPA

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